Corriere del Mezzogiorno - BARI
La storia del politeama Petruzzelli: Venticinque anni per vedere la luce
Nel 1877 il Consiglio comunale lanciava l'idea del nuovo, grande teatro, ma i cantieri si aprirono nel 1898, e l'inaugurazione si celebrò solo nel 1903.
di FABRIZIO VERSIENTI
Il Petruzzelli non è stato fatto in un giorno, e neanche in un anno. Ce ne vollero cinque per la sua «fabbrica». E almeno un quarto di secolo di progetti, offerte e tentativi abortiti. I famosi fratelli commercianti di tessuti che diedero il loro nome al nuovo Politeama entrarono in scena solo verso la fine di questo lungo percorso a ostacoli. L'idea iniziale venne agli amministratori baresi: fu il consigliere Camillo Sagarriga a lanciare nel 1877 la proposta di costruire un nuovo teatro, alternativo al già esistente Comunale, il Piccinni, inaugurato nel 1854. E' passato poco più di un ventennio da allora, ma la città è scontenta del suo piccolo San Carlo, una sala all'italiana di medie dimensioni che finisce inevitabilmente per essere il teatro degli aristocratici e della ricca borghesia, di coloro che possono permettersi il costo - non indifferente - dei biglietti d'ingresso. Per di più, il Comune ne finanzia e sostiene l'attività, e i consiglieri hanno dunque le loro ragioni per lamentarsene.
L'idea di Sagarriga, presentata in Consiglio il 1 maggio 1877, è semplice: facciamo una nuova struttura per lo spettacolo più grande e più popolare, capace di offrire la stessa programmazione di lirica e teatro ospitata dal Piccinni ma per un maggior numero di spettatori (e quindi con biglietti d'ingresso più abbordabili). La proposta, dopo una rapida istruttoria in commissione, viene fatta propria dal Consiglio che lancia un'offerta pubblica: il Comune mette gratuitamente a disposizione il suolo, nei larghi «spazi vuoti» che dal centro murattiano vanno verso Sud Est, lungo il mare; inoltre, garantisce una modesta partecipazione allo sforzo economico (alla fine il suo contributo sarà di 40.000 lire, neanche il 5% del costo totale) e soprattutto una serie di agevolazioni fiscali all'imprenditore che s'impegni, a sue spese, a costruire un nuovo e grande politeama. L'esigenza era quella di contemperare l'ambizione - di rendere più bella la città, di valorizzarla in senso economico e culturale, di farne una piccola capitale del Sud - e la realtà, fatta di bilanci pubblici regolarmente in passivo. Mentre incominciava a crescere un ceto commerciale e industriale autoctono, la proposta di conciliare interesse generale e iniziativa privata apparve come una possibile quadratura del cerchio.
La prima offerta arrivò due anni dopo, da parte di un comitato presieduto dall'avvocato Favia. Ma l'entusiasmo iniziale cadde nel vuoto. Bisognò attendere il 1881 perché si facesse avanti Antonio Barone, che si offrì di realizzare un politeama da tremila posti; come voleva il Comune, l'avrebbe intitolato all'ancora vivente Nicola De Giosa, compositore barese (1820-1885) che fece fortuna a Napoli ma finì per essere rapidamente dimenticato nel Novecento. Il suo progetto, redatto dall'ingegner Gaetano Canedi, famoso per aver disegnato il Manzoni di Milano, andò incontro a varie opposizioni; e la crisi economica del 1887 gli diede il colpo di grazia. I fratelli Petruzzelli, Onofrio e Antonio, entrano in scena nel 1894; due anni dopo, il 29 gennaio 1896, stipulano con il Comune il contratto di concessione di area che definisce minuziosamente i termini dell'impresa, comprese le clausole sull'eventuale ripristino del teatro in caso di distruzione totale o parziale: all'articolo 5, si dice testualmente che «nel caso l'edifizio crollasse per terremoto, per incendio o per qualsiasi altra causa, il concessionario ed i suoi aventi causa avranno il diritto di rimettere il Politeama nello stato primitivo, purché i lavori siano intrapresi fra un anno e siano completati fra tre a contare dal giorno in cui il crollamento sia avvenuto; oppure avranno il dovere di sgombrare il suolo dai materiali e restituirlo libero al Comune fra un anno a contare dal sopra indicato termine». Ben inteso, a spese loro. Il Comune si comporta da «facilitatore» dell'impresa e ne detta le regole, a cominciare dal nome del politeama (De Giosa), dalla sua capienza (tremila posti) e caratteristiche principali (basate sul progetto Canedi).
E' Antonio a firmare la concessione nello studio del notaio Pietro Antonio Labriola; sua controparte, il sindaco Giuseppe Re David. L'anno dopo, i Petruzzelli ottengono qualche modifica non di poco conto: cambia il progetto, questa volta redatto dall'ingegnere barese Angelo Cicciomessere, che qualche anno dopo cambierà il suo nome in Antonio Messeni. Un uomo pieno di energia e di relazioni, già capo dell'ufficio tecnico comunale, nonché cognato dei Petruzzelli avendo sposato la loro sorella, Maria; e infatti gli attuali proprietari, i Messeni Nemagna, sono suoi discendenti. Con il progetto del teatro cambia anche il nome: per la prima volta si parla di politeama Petruzzelli. Prende forma così quello che diventerà, con qualche piccola, ulteriore modifica e ridimensionamento l'anno successivo, il teatro che oggi conosciamo, da poco più di duemila posti, via via ridotti nel tempo dalle sempre più esigenti normative sulla sicurezza (il nuovo Petruzzelli che sta per inaugurarsi ne avrà all'incirca 1400).
E' un teatro che assomiglia molto all'Opéra di Parigi, quella di Garnier inaugurata nel 1879: sia la facciata che la pianta sembrano ricalcarne in scala ridotta e semplificata il progetto. Soprattutto, è la filosofia generale a essere molto simile: l'idea del politeama, ovvero di una sala capace di contenere svariate tipologie di spettacolo, dalla lirica al circo, porta a voltare le spalle al tradizionale modello di teatro all'italiana, con i suoi ordini di palchi simmetrici, per avvicinarsi al modello del teatro alla francese post-rivoluzionario, la cui architettura riprende qualcosa dell'arena o dell'anfiteatro. Il Petruzzelli, ad esempio, affiancherà ai palchi le gradinate del terzo ordine e ancora più su quelle del quinto, coronate rispettivamente dal quarto ordine e dal loggione; zone evidentemente destinate al pubblico popolare, mentre palchi e platea restano appannaggio dei ceti più abbienti (e più eleganti).
Nella sua stessa configurazione, dunque, il teatro porta i segni della sua storia futura, del suo destino: il Petruzzelli sarà sempre, infatti, un teatro ibrido, un po' popolare e un po' aristocratico, senza decidersi a sciogliere il nodo in un senso o nell'altro. Soprattutto, il Petruzzelli continua ancor oggi a dirci, a distanza di oltre un secolo, quanto la Bari dell'Ottocento guardasse a Parigi come a un modello di capitale «alternativa» a Napoli ma anche a Torino o a Roma, come un sogno proibito da coltivare.
«Se Parigi avesse il mare… » non è un proverbio che nasce a caso. La Bari nuova, fuori dalle mura del suo centro storico, prende forma per iniziativa dei francesi con la fondazione del borgo murattiano nel 1813. I primi capitalisti legati alle industrie di trasformazione, nel corso dell'Ottocento, sono imprenditori tedeschi e francesi (i Ravanas, gli Chartroux…); il paradigma del lusso e dell'eleganza viene da Parigi, al punto che quando nel 1864 tre giovanotti decidono di fondare in corso Vittorio Emanuele il caffè Risorgimento, con annessi albergo e ristorante, spediscono uno di loro, Luigi Volpe, in Francia per studiare lo stile, l'arredamento, l'organizzazione dello spazio dei café parigini. E' naturale, dunque, che per il Petruzzelli si pensi all'Opéra Garnier. D'altronde, non dimentichiamo che il più illustre compositore barese, Niccolò Piccinni (1728-1800), divenne famoso e poi morì - praticamente in miseria - proprio a Parigi.
Tornando alla «fabbrica» del nostro teatro, il 1898 fu un anno molto turbolento: anche a Bari, in aprile, scoppiò la rivolta del pane, repressa nel sangue dal generale Pelloux. C'era bisogno di qualche politica pubblica che desse sollievo alla popolazione più povera e disperata, di lavoro; anche il cantiere del Petruzzelli poteva essere una buona idea. Così, finalmente la mano pubblica e quella privata si strinsero, e si cominciò a costruire; ci vollero cinque anni, un milione di lire dell'epoca (o addirittura, secondo certe stime degli eredi, un milione e mezzo, cifra davvero iperbolica).
Ma lo sforzo produrrà frutti importanti: i terreni intorno si apprezzeranno moltissimo, e il Petruzzelli farà da volano per lo sviluppo urbanistico di tutta quella zona tra corso Cavour e il mare che passa oggi impropriamente per «umbertina» e resta la più elegante (e pregiata) della città. L'inaugurazione del teatro fu il 14 febbraio 1903. Manco a dirlo, con Les Huguenots di Meyerbeer, puro «grand-opéra» francese.