La politica non capisce la violenza
CHIARA SARACENO
Giovinastri che nascondono dietro un’ideologia demenziale la propria voglia di controllare il territorio e di menare le mani hanno picchiato a morte un coetaneo; altri che in nome del diritto a divertirsi (e a occupare lo spazio pubblico come gli pare) tentano il linciaggio dei vigili che danno le multe mentre molti altri guardano e fanno il tifo. Che cosa fanno i politici di fronte a questi segnali di uno stato diffuso d’inciviltà, d’incapacità ad abitare spazi comuni, di non avere con gli altri solo rapporti di sopraffazione, di dimostrazione muscolare su chi è il più forte? Litigano tra di loro sulla gerarchia di gravità in cui collocare i fatti, tra l’altro attribuendo rilevanza (e quindi dignità) politica a azioni che sono semplicemente criminali. Se il neo-presidente della Camera un po’ imprudentemente e superficialmente dichiara che il bruciare bandiere è peggio che picchiare a morte qualcuno, subito dal centrosinistra gli ribattono che no, è peggio la seconda cosa, ma non perché ci sia il morto e perché si è fatta violenza sulle persone, ma perché i colpevoli sono naziskin. Che ideologia politica avranno gli allegri e violenti festaioli di Piazza Vittorio a Torino? Forse perché non gliene si può attribuire con certezza una, non entrano nella graduatoria.
Ciò che è del tutto assente in questo penoso «confronto politico» è anche solo il cenno di una consapevolezza della violenza sotterranea che attraversa gli spazi pubblici e lo stare in pubblico: dai cortili e corridoi scolastici testimoni di quotidiano bullismo che emerge solo quando un fatto grave per una volta lo fa vedere (il ragazzino che brucia i capelli al compagno, ma anche la mamma che aiuta la figlia a picchiare l’insegnante), alle strade e piazze delle città. Qualche volta la miccia che fa scattare la violenza è l’insofferenza verso il diverso, qualche volta solo la voglia di far valere la propria forza, qualche volta il rifiuto di essere disturbati nei propri divertimenti o nelle proprie faccede, anche se quei divertimenti e faccende disturbano altri. Ne esce un’immagine della nostra società fatta di gruppi e individui totalmente autoreferenziali, che contano sugli altri solo per farsi forza nel far valere la propria prepotenza.
Naturalmente non siamo tutti così e si possono citare molti esempi opposti. Ma una politica che si comporta in modo puerilmente reattivo come nell’ultimo episodio non aiuta, al contrario. E non basta certo a (ri-)costruire un ormai fragile tessuto sociale connettivo invitare le scuole a cantare l’inno di Mameli almeno una volta la settimana, come un po’ pateticamente ha suggerito il ministro della Difesa Parisi.
http://www.lastampa.it/_web/cmstp/tmplRubriche/editoriali/gEditoriali.asp?ID_blog=25&ID_articolo=4482&ID_sezione=&sezione=