Presto sarà il 10 febbraio,la giornata del ricordo,dove si celebra la perdita della mia regione:la Venezia Giulia.Apro un thread sulle terre irridente,per sapere cosa ne pensate a riguardo!
La Svizzera Italiana (vedi cartina 1) comprende tutto il Canton Ticino e la valle Mesolcina del Cantone dei Grigioni; vanno incluse in essa anche le valli Bregaglia e di Poschiavo, fisicamente staccate dalla restante parte. In tali zone si parla quasi esclusivamente l'italiano ed il dialetto è di tipo lombardo. Si ricorda che il Canton Ticino fu ceduto dal Ducato di Milano alla Svizzera nella prima metà del Cinquecento; esso fino alla seconda metà dell'Ottocento faceva parte delle diocesi di Milano e Como (vedi cartina 2). Le comunicazioni a tutt'oggi sono più intense con l'alta Italia che con la restante Svizzera.
Rientrano nei confini geografici d'Italia anche la Val Monastero (Cantone dei Grigioni) ed il passo del Sempione (Cantone Vallese); gli abitanti di questi due lembi di terra sono di parlata rispettivamente ladina e tedesca. Di contro vi sono alcuni piccoli territori appartenenti all'Italia politica ma geograficamente transalpini: la Val di Lei e Livigno (vedi cartina 3).
Le varietà linguistiche e dialettali del Cantone dei Grigioni
Il Cantone dei Grigioni mostra determinate peculiarità linguistiche che fanno sì che esso sia l'unico Cantone svizzero trilingue. Le lingue parlate sono: il tedesco (da circa i due terzi della popolazione), il romancio (ladino) e l'italiano (da meno di un quinto della popolazione). Ognuna di queste lingue presenta a sua volta distinti dialetti, mai uniformatisi tra di loro.
Il tedesco ha tre dialetti locali: il "Walserdeutsch" parlato nella val di Reno, a Vals, ad Arosa e nell'enclave di Obersaxen; il "Bündnerdeutsch" tipico di Coira e dei suoi dintorni; un dialetto tra il bavarese ed il tirolese parlato a Samnaun.
Il romancio, idioma neolatino che presenta molte influenze tedesche, si suddivide in cinque varietà locali: il Soprasilvano (parlato nella Valle del Reno Anteriore a nord di Flims), il Sottosilvano (nel centro dei Grigioni), il Sopramirano (da Bivio a Tiefencastel), il Putér e il Vallader in Engadina e in Val Monastero, valle quest'ultima geograficamente appartenente all'Italia e contigua a valli altoatesine di antica parlata ladina. Vi sono inoltre isole linguistiche ladine in alcuni paesini nei pressi di Coira; d'altra parte la città stessa fino al Settecento era ancora a parlata ladina (nome ladino: "Cuera"). Fino al medioevo il romancio era parlato dalla maggioranza dei grigionesi; successive emigrazioni di tedeschi hanno in seguito favorito una certa germanizzazione della regione fino al passo dello Spluga e di San Bernardino.
L’italiano viene parlato in quattro valli dei Grigioni, al di qua dello spartiacque alpino: Mesolcina, Val Calanca, Val Bregaglia e Valposchiavo. I dialetti locali sono abbastanza diversi tra loro: il "Bregaliot" della Val Bregaglia è un dialetto lombardo con molte influenze ladine; il "pus'ciavin" (di Poschiavo) è una continuazione del valtellinese mentre i dialetti del Moesano sono imparentati con quelli del Canton Ticino.
Purtroppo la lingua italiana in queste valli si è indebolita molto, sia per una cospicua presenza di abitanti alloglotti, sia per la diffusione dei mass-media in lingua tedesca. La vita culturale di tali valli è però orientata verso l'Italia (e il Canton Ticino), mentre da poco si sta mettendo in atto una campagna di sensibilizzazione per la conservazione della lingua italiana, reintroducendo l'italiano nelle scuole elementari delle valli e favorendo la continuazione degli studi nel ticinese.
Il Nizzardo
Nizza, Monaco e territori minori
La Contea di Nizza era quel territorio - di parlata italiana - che comprendeva quasi tutto il bacino del fiume Varo e parte della vallata del Roia e del Bevera. Il capoluogo era Nizza, denominata "Nizza Marittima" per distinguerla da Nizza Monferrato in Piemonte. La Contea appartenne al Regno di Sardegna fino al 1860, in seguito fu ceduta dal Cavour alla Francia; l'intensa opera di francesizzazione ha avuto effetto soprattutto nella città di Nizza Marittima, ma anche il restante territorio non ne è rimasto immune. Fu favorita una progressiva diffusione della lingua francese a danno di quella italiana: ad esempio vennero chiuse tutte le pubblicazioni dei giornali italiani (come "La voce di Nizza"); furono cambiati persino molti cognomi degli autoctoni ("Bianchi" => "Leblanc"; "Del Ponte" => "Dupont" ecc.). L'italianità di Nizza è andata scomparendo a mano a mano: negli anni trenta solo il centro storico era a maggioranza italiana, ora la città è totalmente a parlata francese. L'italiano è comunque la seconda lingua della città e il dialetto nizzardo è sostanzialmente di tipo ligure. Cultura autoctona è rimasta maggiormente nei paesi dell'interno oltre che a Mentone e nello stato di Monaco: la flessione dialettale - oltre che gli usi e le tradizioni - è di carattere ligure. Interessante inoltre è vedere che una buona fetta di cognomi dei residenti in tale regione è italiano: non ci si sorprenda quindi se troviamo "Giorgi" e "Delrivo" a Poggetto Tenieri, "Baldacci" e "Paolini" a Guglielmi, "Rosso", "Andreoli" e "Ceccarini" alla Turbia ecc. Limite occidentale della Contea di Nizza al di là del quale si entra nella francesissima Provenza era - come già affermato - il fiume Varo, fin dall'antichità designato come limite occidentale della regione italiana (vedi cartine 1 e 2).
Nel 1947, in seguito al Trattato di Parigi, furono ceduti alla Francia il comune di Tenda e parte dei comuni di Briga Marittima, Valdieri e Olivetta San Michele; anche queste zone furono immantinente soggette a francesizzazione. Una certa fetta della popolazione, per aver scelto di non diventare di cittadinanza francese, prese la via dell'esodo. Altri territori, di estensione limitata ma di grande importanza strategica, furono annessi alla Francia: il passo del Monginevro, la Valle Stretta del monte Tabor (ad ovest di Bardonecchia), il passo del Moncenisio ed una parte del territorio del Piccolo San Bernardo col celebre ospizio (vedi cartine 3 e 4). In tale zona, va precisato che la cima del Monte Bianco, contrariamente a quanto taluni sostengono, non appartiene alla Francia ma su di essa corre la linea del confine politico attuale.
La cessione di Nizza e Savoia alla Francia
La cessione di Nizza e Savoia alla Francia fu voluta da Camillo Benso conte di Cavour, per ottenere il "placet" di Napoleone III che aveva mire nelle due regioni. Il Cavour ritenne – a torto o a ragione – necessario il loro sacrificio alla Francia per portare a compimento l'unione d'Italia. Non tutti i politici approvavano il piano, in quanto se la Savoia (seppure legata a un vincolo dinastico all'Italia) era per lingua e usi francese, la Contea di Nizza era italiana non meno di Piemonte e Liguria. L'oppositore più ferreo era ovviamente Giuseppe Garibaldi, in quanto Nizza Marittima era la sua città natale, ma forti critiche venivano anche dall'opposizione della destra conservatrice e della sinistra che sostenevano che la cessione era "un vero e proprio asservimento del governo cavouriano alla Francia". Anche la stessa Londra (forse temendo una maggiore espansione della Francia) esprese i suoi malumori su tale decisione. Ma Cavour, nonostante le varie opposizioni, indisse un plebiscito sia nel Nizzardo che in Savoia, con la chiara intenzione di pilotarlo in chiave filofrancese. E' eloquente la lettera che egli scrisse il 27 marzo 1860 a Costantino ***** "...bisogna assicurare, con misure abili, il successo del voto a favore della Francia". Permise inoltre l'arrivo a Nizza Marittima del ministro di polizia di Napoleone III per abbindolare l'opinione pubblica. Garibaldi, furibondo per ciò che stava accadendo, volle comparire a Nizza Marittima e parlare alla popolazione della città, ma il Re Vittorio Emanuele d’accordo col Conte intervenne per distoglierlo. In seguito Garibaldi interpellò il Ministero sul trattato di cessione di Nizza e Savoia, e sostenne che essa violava i patti con cui quella città si dava alla dinastia sabauda e pregiudicava la fama della monarchia e la sicurezza del Regno; reclamò infine che non si procedesse al plebiscito prima dell'approvazione del trattato da parte del Parlamento.
Nonostante gli sforzi dell'Eroe dei due mondi, il plebiscito viene effettuato il 15 e il 22 aprile. I suoi risultati sono: nella Savoia 130.538 voti per l'annessione alla Francia e 235 contrari e a Nizza 24.448 contro 160, risultati, questi ultimi di Nizza, ottenuti con ogni mezzo illegittimo e contrastanti alla vera volontà della popolazione, che si sentiva italiana. A conferma di ciò, riporto una notizia tratta dalla tesi dell'amico Marzio Scaglioni ("La presenza italiana in Dalmazia 1866-1943"): "Solo i 119 marinai nizzardi di stazza sulle navi sabaude nei vari porti votarono liberamente e così si espressero: 114 per l'Italia e 5 per la Francia."
Dopo il plebiscito, avvenne la discussione alla Camera; ad essa presero parte numerosi deputati, fra cui Rattazzi, Guerrazzi e Cavour. Riporto la parte finale del discorso del Guerrazzi, che elenca i motivi per cui non votò al trattato:
"Non lo voto perché inviato al Parlamento italiano per operare quanto mi è dato a unire in un corpo solo l'Italia, diventerei mandatario infedele e mancherei di coscienza se con il primo voto cominciassi ad approvare il taglio di un pezzo nobilissimo della mia patria.
Non lo voto perché la Toscana e l'Emilia annesse al Piemonte non crescono l'Italia, mentre con la perdita di Nizza rimarrà in perpetuo manomessa l'Italia.
Non lo voto perché credo e farei torto alla generosa Francia a credere che questa volesse sottoporci a queste forche caudine.
Non lo voto perché questa necessità non fu dimostrata, né fu chiarito se è stato fatto quanto era debito fare un Ministero che si vanta italiano per evitarla; né salva opporre che la discretezza vieta palesare le cause della necessità, perché, dopo avere affermato che bisogna piegare il capo alla prepotenza, che cosa si può dire di peggio noi non sappiamo.
Non voto perché potendo scindersi il trattato, per riverenza alle nazionalità, gran parte della Savoia, ricorrendo certe contingenze, avrei ceduto. Nizza invece non l'avrei ceduta mai.
Non voto perché mi sono sicuri i vantaggi presenti, né chiari gli avvenire, memore del proverbio: "palabras y plumas el vento las lieva".
Non voto perché la votazione calpesta la legalità, santa custode del diritto.
Non voto perché con questo trattato aborro mettere in mano all'amico un'arma per cui più tardi crescendogli il sospetto, aumenti nelle pretese di volersi assicurare, e al nemico un pretesto di fermarsi in qualche parte d'Italia con la ragione di bilanciare la potenza francese.
Non voto perché, mentre G. Garibaldi mette allo sbaraglio la vita per conquistarci con la spada la patria, mi pare delitto levargli con il mio voto la sua.
Non voto perché, depositando il voto nell'urna, mi parrebbe conficcare un chiodo nella bara dell'unità italiana. No; non possiamo unire l'Italia, tolga Dio che per noi non vada divisa. Per seppellire i morti si chiamano i becchini, non i liberi italiani nel primo Parlamento italiano".
Rattazzi sosteneva che si sarebbe potuto evitare il sacrificio di Nizza procedendo ugualmente alle annessioni, e propose alla Camera di astenersi.
Anche il discorso del Cavour fu notevole; egli difese la sua politica e sostenne l'utilità dell'alleanza con la Francia. Tentò anche di "dimostrare la non italianità di Nizza"; ma le motivazioni addotte non erano per nulla plausibili, anzi a volte persino puerili e alle quali sicuramente nemmeno lo stesso Cavour credeva. Il 29 maggio la Camera approvò il trattato con 225 voti favorevoli, 33 contrari e 23 astenuti.
La discussione fu in seguito portata al Senato. Anche in tale sede si discusse molto del trattato. Fu particolarmente commuovente il discorso dell'ex ministro nizzardo Giovanni De Foresta che, pur rassegnandosi al doloroso sacrificio, si ribellò fieramente all'idea di chi considerava Nizza Marittima non italiana.
"Io vorrei pertanto, o signori, che si abbandonasse l'argomento dell'esclusione e del dubbio della nazionalità di Nizza, che per me rende il trattato tanto più doloroso. Non vorrei che si sostenesse oggi una tesi, che vi obbligherà domani a dire che Garibaldi non era italiano, che quella città che con il suo coraggio, con la sua fedeltà, con la sua costanza salvava già la monarchia sabauda non era città italiana .... Cedete se inesorabile necessità vi obbligano a questo doloroso sacrificio, cedete il territorio Nizzardo, ma non cedete le sue tradizioni, i suoi fasti, le sue glorie, che sono pur glorie nostre, perché sono glorie italiane. Signori, io qui pongo termine alle mie spiegazioni e, come ho detto, sia carità di patria, sia dignità personale mi obbligano a deporre contrario il mio voto all'urna. Io non mi lusingo di avere nella medesima molti voti uguali al mio. Fra pochi giorni il trattato sarà dunque ratificato. Nizza, la città fedelissima, sarà una città francese; io però non cesserò di essere italiano e con voi farò voti che, come già una volta, la fedeltà, il coraggio e la costanza di Nizza salvò la dinastia sabauda, ora il di lei sacrificio serva a condurla agli alti e finali suoi destini e al pieno trionfo della causa italiana".
La cessione di Nizza venne approvata dal Senato con 92 voti contro 10. Il 10 giugno del 1860 il grande sacrificio fu compiuto: Nizza Marittima e il suo territorio passarono, insieme alla Savoia, alla Francia. A partire da allora e per i prossimi due anni, circa diecimila italiani lasciarono la Contea per arrivare esuli in Italia.
Si ricorda che, nonostante la notifica del primo parlamento italiano, la cessione di Nizza è rimasta per lungo tempo un conto aperto tra l'Italia e la Francia; si ritratterà sulla questione più volte nei successivi anni; la prima (in un modo subdolo) nel 1870; l'ultima quando nel 1940 Mussolini attacca la Francia.
La val Roia
Il Roia è quel fiumiciattolo che parte dal Col di Tenda e sfocia, dopo aver attraversato gole e colline in un percorso tormentato e suggestivo, in prossimità di Ventimiglia. La sua vallata, famosa per le sue bellezze naturali, ha subìto negli ultimi 140 anni, cioè da quando la Contea di Nizza passò alla Francia, i destini del confine occidentale dell’Italia. Infatti con la cessione della Contea, il fiume Roia nasceva in Italia, per passare il confine di stato due volte, lasciando alla Francia i paesi di Breglio e Saorgio e all’Italia Tenda, Briga Marittima e ai vecchi "territori di caccia" dei Savoia (cioè i territori di testata dei fiumi Tinea e Vesubia). Tale linea confinale è stata "ritoccata" nel 1947 quando sono stati sottratti all'Italia i paesi di Tenda e Briga Marittima. La parte francese della val Roia, nonostante l'opera di francesizzazione fatta dal 1860 e dal 1947, mantiene nei dialetti dei suoi paesi le caratteristiche della parlata ligure. Do un elenco dei vari paesi con breve descrizione.
Airole è forse il paese più importante della valle con i suoi circa 500 abitanti. Il borgo, sito a 149 metri sul livello del mare, è arroccato su un colle che sovrasta il fiume Roia e si sviluppa, nella parte più antica, a "gironi" concentrici che salgono fino ai pochi resti del castello.
Olivetta San Michele è capoluogo di un gruppo di borgate, che comprendevano anche Piene e Libri, passate nel 1947 alla Francia. Il castello della Penna fu motivo di varie contese a causa della posizione strategica che permetteva di ben controllare i traffici lungo la "strada del sale" della Val Roia.
Sospello è un tipico paese dell'alta valle che permette sino dal XVI secolo il passaggio dalla Val Bevera alla Val Roia.
Breglio è un tranquillo paese che sorge sulle rive di un lago formato dal fiume Roia. Nel 1947 sono state annesse al comune di Breglio le frazioni italiane di Piena e Libri.
Saorgio è un delizioso borgo, caratteristico per i suoi portici ed i suoi stretti vicoli.
Fontane si trova proprio nel cuore della val Roia, il villaggio si distende lungo il fiume fra le sue gole rocciose.
Berghe è un'antica cittadina del XIV secolo dalle facciate dipinte e dai preziosi architravi e si trova in una valle parallela, la valle della Levenza. E' passata alla Francia nel 1947.
Nostra Signora del Fontan è situata a strapiombo sopra un torrente, circondata da boschi è collegata con Briga Marittima e Triora da un'antica mulattiera.
Briga Marittima è situata su un piccolo pianoro tagliato dal torrente Livenza, affluente della Roia. Il paese, il cui nome avrebbe un'origine celtica, ha conservato molte interessanti testimonianze del passato. Caratteristico è l'idioma del paese e della cosiddetta "terra brigasca", comprendente il vecchio comune di Briga Marittima e i paesi di Verdeggia (comune di Triora) e Viozzene (comune di Ormea). Parte del vecchio comune di Briga Marittima è rimasto all’Italia, con le frazioni di Piaggia, Carnino e Upega, che costituiscono l’odierno comune di Briga Alta (prov. Di Cuneo) e Realdo che è stato attribuito a Triora (IM). Il paese con altre sue frazioni nel 1947 è invece passato dalla provincia di Cuneo alla Francia.
Tenda è il più vasto comune del dipartimento. Il borgo arroccato dai tetti di pietra è circondato da tipiche colture a terrazza. Dal vicino paese di San Dalmazzo di Tenda si accede alla valle delle Meraviglie, un parco di grandissimo interesse ambientale e storico, sono presenti nel parco più di trentamila incisioni rupestri dell'età del bronzo.
Granile è una frazione di Tenda con una decina di abitanti, molto tipiche le case addossate, i balconi in legno e i tetti di pietra.
Nel 1987 le Edizioni Team 80 (via Boccaccio 19, 20123 Milano) pubblicano il libro di Marcolini "Val Roia mutilata" in cui si descriveva la vicenda politica di Nilla Gismondi, la fondatrice del "Comitato per l'italianità della val Roia", che si oppose ad un comitato per l'annessione alla Francia, finanziato dai suoi servizi segreti e guidato da brigaschi naturalizzati francesi da ormai lungo tempo. Dopo l'annessione, il Comitato della Gismondi si adoperò per scorrere tutti quei profughi che, per non diventare cittadini francesi, giunsero in Italia dalla Val Roia. Nel 1989 Gianluigi Ugo pubblicò, per le edizioni Xenia di Milano la ricerca "Il confine italo-francese" studio abbastanza completo e approfondito sull' argomento, mentre nel 1995 Giulio Vignoli dedicava a Briga e Tenda un capitolo del suo "I territori italofoni non appartenenti alla Repubblica italiana", uscito da Giuffrè.
Per dimostrare quanto Briga e Tenda fossero di sentimenti francesi, si ricorda che il 2 giugno 1946 in occasione del referendum istituzionale la maggioranza dei brigaschi votò per la monarchia e a Tenda la repubblica superò la monarchia per soli 66 voti. Ottennero la maggioranza dei voti nelle elezioni per l'Assemblea Costituente i partiti contrari all' annessione (DC, Destre e PRI). L'unico partito "italiano" favorevole alla cessione era quello socialista, ed i servizi segreti francesi fecero una forte propaganda affinchè la gente lo votasse. Paradossalmente, invece, fu molto critico nei confronti dell'annessione il capo carismatico dei socialisti francesi, Lèon Blum, secondo il quale l'amicizia tra Francia e Italia valeva assai più del possesso di Briga e Tenda. Tale atteggiamento di Blum, oltre che dei suoi interventi scritti ed oratori dell'epoca, è stato confermato anche dalla pubblicazione dei diari di Pietro Nenni.
Negli anni immediatamente successivi all' annessione, la Francia operò una specie di pulizia etnica senza spargimenti di sangue, eliminando lapidi, tombali e non, in italiano, mutando la toponomastica locale fin quasi all'ultimo casolare e sostituendo la scritta sotto il monumento al brigasco colonnello Giovanni Pastorelli, morto nella battaglia di Ain Zara (Libia) nel 1911, diventato Jean Pastorelli, caduto su un non meglio precisato "champ d'honneur".
Il Principato di Monaco
La piccola città di Monaco nella costa ligure costituisce, con le minori località circonvicine, il Principato di Monaco che, occupando una superficie di 1,6 kmq, è fra i più piccoli stati d'Europa. Il centro abitato domina dall'alto ed erto promontorio una piccola ma sicura ansa costiera posta a nord, eccellente approdo, grazie al riparo delle montagne circostanti, per le navi. Oggi ancora la città, così fabbricata sul promontorio alto 63 m s.l.m. conserva il suo aspetto forte di vecchia cittadella; ma le costruzioni moderne fano in modo che Monaco è tutt'uno con gli abitati di: La Condamina, Montecarlo, La Costa, San Michele, Moneghetti, Castelleretto ecc. ed il paese francese di Belsole. Il Principato fino al 1848 comprendeva anche le due località di Mentone e Roccabruna, e vive dal 1860 in poi, con la sua effimera sovranità, sotto la protezione della Repubblica francese. La superficie è quasi totalmente inurbata; la popolazione parla il francese, ma il dialetto locale (il monegasco) è una parlata mista tra ligure e provenzale. E' tuttora presente a Monaco l'elemento italiano, che però è molto fluttuante, in quanto gli italiani vengono nel Principato tutt'al più per lavori stagionali. La storia di Monaco è intimamente connessa a quella della Liguria; nel 1297 Franceschino Grimaldi detto "Malizia" se ne impossessò. Da allora Monaco divenne possesso (salvo qualche parentesi) della nobile famiglia (da ritenersi di origine italiana), che governa tuttora lo staterello.
L'Alto Adige
L'Alto Adige, politicamente italiano, è abitato per oltre due terzi da tedeschi. Tale regione nell'antichità era soggetta a Roma: tracce dell'epoca romana sono diffusissime ovunque. I tedeschi hanno iniziato a penetrarvi nel medioevo, germanizzando dapprima la Pusteria e la zona di Merano e poi la maggior parte delle altre vallate a nord della Stretta di Salorno. La zona tra il Brennero e Bolzano venne tedeschizzata nel Seicento, sopprimendo il ladino. Nel XIV secolo la tedeschizzazione di Silandro, Ortisei e Chiusa era poco progredita, mentre nel XV secolo erano ladine ancora le valli Gardena, Tires, Eores e Gudon. Va detto anche che nel corso dei secoli l'Alto Adige subì opere alterne di italianizzazione e di germanizzazione più o meno intense. Nel Settecento Maria Teresa d'Austria eliminò molti caratteri italiani della regione; come conseguenza di ciò la percentuale degli italiani si abbassò progressivamente. Erano però sentiti i legami – non solo geografici - tra l'Alto Adige ed il resto d'Italia. Nel 1861 il bolzanino Carlo de Zellinger, vice capitano della dieta tirolese, sosteneva che 'le due regioni separate dal Brennero sono interamente diverse per cultura, per sviluppo e per ogni altra cosa; che gli interessi del Tirolo meridionale tedesco sono identici a quelli del Tirolo italiano'. Ancor più in là andava il segretario della Camera di Commercio di Bolzano, dott. Angerer, sostenendo nel 1864 che la regione al sud del Brennero dovesse essere aggregata alla Venezia. Dopo l'anno 1866 la Venezia Tridentina restò divisa dalle altre della penisola. Da allora si sviluppò intensamente l'opera di germanizzazione, col lavoro concorde del governo imperiale di Vienna, del governo provinciale di Innsbruck e delle associazioni pangermaniste. La condizione degli italiani peggiorò. Il censimento del 1869 rilevava l'8,7 % di italiani nel Tirolo meridionale tedesco, che divennero il 7,8 % nel 1880 ed il 9,1 % nel 1890. Nel 1918 i confini d'Italia furono portati fino allo spartiacque naturale (includendo anzi una piccola zona transalpina in prossimità di Dobbiaco - vedi cartina 1) e da allora sono sempre rimasti invariati. Negli anni venti e trenta la zona fu parzialmente italianizzata; in seguito cominciò ad emergere il problema della minoranza tedesca. Esso venne affrontato in maniera sistematica dopo gli attentati degli anni cinquanta e sessanta ad opera di estremisti con la promulgazione di leggi a protezione della minoranza tedesca e della sua cultura.
La questione altoatesina
Passato insieme al Trentino all'Italia al termine della prima guerra mondiale col trattato di Saint Germain, il territorio dell'Alto Adige costituì dal 1926 la provincia di Bolzano. Il Governo fascista vi adottò, almeno in un primo tempo, una politica di italianizzazione della zona. Dopo l'annessione dell'Austria alla Germania (1938) crebbero e si manifestarono nella provincia dei sentimenti pangermanisti già latenti. La questione sembrò risolta dall'accordo fra i governi italiano e tedesco del giugno 1939 che prevedeva un plebiscito tra gli abitanti di lingua tedesca perché scegliessero "definitivamente" fra il trasferimento nei territori del Reich o la permanenza in Italia. Circa il 70 % degli altoatesini scelse di trasferirsi in Germania; il trasferimento fu però ostacolato dagli eventi della Seconda guerra mondiale, tanto che emigrarono effettivamente solo 70 mila persone su 185 mila, poi rientrate in Italia a guerra finita. In seguito a una richiesta di restituzione da parte austriaca dell’Alto Adige e di una riunificazione del “Tirolo tedesco”, l’Italia si oppose in quanto l’Alto Adige era geograficamente italiano, e uno smembramento della Venezia Tridentina avrebbe prodotto un peggioramento economico di ambedue le province, separate sì da un fattore etnico (che peraltro non è così netto), ma intimamente legate tra loro dalla geografia, dalla storia, dall’economia. Fu indi sancito l’accordo De Gasperi – Gruber, che assicurava il mantenimento dell’Alto Adige all’Italia, con una completa autonomia amministrativa culturale ed economica all'Alto Adige. Tra l'altro era previsto il riconoscimento del pieno diritto dei cittadini di lingua tedesca all'accesso alla pubblica amministrazione, dove veniva introdotto ufficialmente il bilinguismo. L'Assemblea costituente accolse il trattato, concedendo uno statuto speciale alla Regione Alto-Adige (31 gennaio '48) all'interno della quale la provincia di Bolzano otteneva una larga autonoma legislativa e amministrativa che ne faceva, praticamente, una "regione minore". Tale politica era già molto più rispettosa e benevola nei confronti della minoranza alloglotta di quanto non lo fosse stata quella riservata agli italiani d’Istria sotto il regime di Tito. Ciò nonostante una certa percentuale di abitanti di lingua tedesca, sentendosi “alloglotti” in uno stato dove erano e sarebbero stati sempre una minoranza, desideravano l’annessione della regione all’Austria. Nacque così il Sudtiroler Volkspartei (Partito popolare del Sud-Tirolo), partito estremista fondato nel 1946 a Bolzano che, sotto la maschera dell'obiettivo di ottenere l'istituzione di una regione autonoma per la provincia di Bolzano, mirava in realtà all'autodecisione e all'annessione all'Austria. A dar vigore a queste correnti estremiste intervenne nel 1956 lo stesso governo austriaco con la presentazione di un memorandum all'Italia contenente lamentele circa i modi di applicazione dell'accordo De Gasperi-Gruber (mancata realizzazione dell'autonomia, della parificazione dei diritti dei cittadini, delle lingue ecc.). D’altra perte l’Austria aveva tutti gli interessi ad acquistare una regione al di là della cerchia dele Alpi, diminuendo in tal modo l’isolamento dal mare; anche questo a mio parere è una causa dell’appoggio austriaco al Sudtiroler Volkspartei. Intanto si sviluppa una cruenta e barbara battaglia da parte di nuclei di terroristi altoatesini. Nel decennio fra il 1956 e il '66, vi furono oltre trecento attentati a centrali elettriche, tralicci dell'alta tensione, stazioni ferroviarie. Dal 1964 vengono prese dì mira le forze di polizia, nove tra carabinieri, guardie di frontiera e finanzieri sono trucidati fra il '64 e il '66. Con l'attentato di Cima Valona (23 giugno '67) la situazione sembra precipitare, i negoziati in corso fra i due paesi ormai da due anni tornano in alto mare. Sarà soltanto nel 1971 che la situazione si sbloccherà con l'approvazione da parte dei parlamenti italiano ed austriaco del cosiddetto "pacchetto", contenente provvedimenti che ampliano ulteriormente i poteri legislativi e amministrativi di Bolzano e Trento. Il trattamento riservato dall’Italia alla minoranza tedesca è a tutt’oggi da ritenersi tra i migliori al mondo, anzi talvolta la minoranza italiana nell’Alto Adige ha gli stessi diritti di quella tedesca.
La Venezia Giulia
Altra regione culturalmente, storicamente e geograficamente italiana è sempre stata la Venezia Giulia (vedi cartina 1). Il confine politico in questa zona si discosta notevolmente da quello naturale: è italiano il piccolo territorio transalpino di Tarvisio, una volta di parlata tedesca (Tarvis); l'Italia, di contro, è mozzata di tutta la sua parte orientale. Il confine infatti, anziché seguire lo spartiacque principale delle Alpi, traccia un percorso molto irregolare tagliando in due la città di Gorizia ed escludendo dall'Italia: l'alta valle dell'Isonzo e dei suoi affluenti, il Carso, l'Istria, le valli della Piuca e di Circonio, il Quarnaro (con le isole Cherso, Lussino e Veglia) e la costa liburnica con Fiume. La Venezia Giulia entrò a far parte dell'Italia nel 1920 (Fiume nel 1924); il confine politico di allora seguiva in massima parte lo spartiacque naturale (vedi cartina 2), escludendo però all'Italia Longatico, la conca di Circonio, la valle dell'Eneo, la Liburnia da Fiume a Buccari e l'isola di Veglia.
Amministrativamente la Venezia Giulia era suddivisa in quattro province: Gorizia, Trieste, Pola e Fiume. Gli slavi costituivano il 40 % circa della popolazione totale ed erano concentrati per lo più nelle campagne e: nell'alta valle dell'Isonzo e dell'Idria (Tolmino, Caporetto, Plezzo, Idria, Circhina, Godovici, Zolla, ecc.), nella zona di Postumia Grotte, di Villa del Nevoso e di San Pietro nel Carso e nell'Istria nord-orientale (Castelnuovo d'Istria), zone queste estese ma con bassa densità di popolazione. Gli italiani erano soprattutto nelle città e nei paesi maggiori (Trieste, Gorizia, Fiume, Pola, Parenzo, Rovigno d'Istria, Capodistria, Albona, Buie d'Istria, Umago, Lussinpiccolo ecc.), nell'Istria occidentale e meridionale, in buona parte della valle dell'Isonzo, nella costa liburnica, a Lussino e parzialmente ad Abbazia, Pisino, Pinguente, Cherso, Veglia. Le percentuali degli italiani a Pola e Fiume erano rispettivamente 70 e 80 % circa. Il carattere culturale predominante inoltre è sempre stato italiano e parte della popolazione slava - al contrario degli italiani - era bilingue. La pulizia etnica operata a partire dal 1943 da Tito e pagata col sangue di 20 mila italiani morti tra foibe e campi di concentramento e la conseguente emigrazione dei 350 mila italiani ha quasi completamente slavizzato la Venezia Giulia, segnando così la morte di una cultura che per secoli aveva caratterizzato la zona. Oggi in Venezia Giulia si contano circa 30-40 mila italiani, che sperano in future leggi che li proteggano adeguatamente.
Cenni storici della Venezia Giulia: da Roma alla Seconda guerra mondiale
Il termine Venezia Giulia fu creato nel 1863 dal dialettologo Isaia Ascoli e designava i territori orientali d’Italia dall’Isonzo-Natisone alla cerchia delle Alpi e Prealpi Giulie che chiudono a oriente l’Italia, comprendendo in essa tutta la penisola istriana.
La storia dell’italianità della Venezia Giulia ha origine con la sua conquista da parte dei Romani nel II secolo a.C. I Romani fondarono numerose città tra cui Tergeste (Trieste), Pietas Julia (Pola), Tarsatica (Fiume) ecc. Nel 27 a.C. l’Italia fu divisa in undici regioni e la Venezia Giulia venne a far parte della “Decima Regio – Venetia et Histria”, fino al fiume Arsa. La Dalmazia invece divenne provincia senatoriale. La conquista di Istria e Dalmazia era molto importante per Roma, in quanto veniva creata una zona di sicurezza sul lato orientale d’Italia, di cui queste regioni erano considerate parte integrante.
Il passaggio tra romanità e italianità avvenne senza soluzione di continuità. Solo dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, più precisamente a partire dal 600 d.C., vi fu una prima penetrazione di slavi in Venezia Giulia In seguito, una parte dell’Istria venne conquistata da Venezia, che influenzò culturalmente e linguisticamente la regione. Nel Trecento una grave epidemia sterminò praticamente la popolazione dell’Istria e Venezia fece trasferire nelle città mercanti e artigiani della Carnia e della laguna veneta, mentre nelle campagne favorì l’immissione di Slavi che fuggivano all’interno della penisola balcanica di fronte alla minaccia turca. Dopo la caduta di Venezia e la parentesi napoleonica, con la Restaurazione il Lombardo-Veneto venne assegnato all’Austria. Essa progettò e attuò il potenziamento del porto di Trieste fino a farlo diventare il più importante dell’Impero e mise a capo un Governatore, in modo tale da capeggiare l’amministrazione locale una classe fedele e adatta ai nuovi compiti che si identificasse con la cultura tedesca. Ma il tentativo di germanizzare la Venezia Giulia (che sotto l’Austria si chiamava “Litorale”) non ebbero successo.
Nella seconda metà dell’Ottocento si faceva sempre più strada in Europa l’idea dello stato nazionale; questo rappresentava una serio pericolo per il multietnico Impero Austro-ungarico. In Venezia Giulia si svegliarono sia le coscienze italiane che quelle slave, ma mentre gli italiani volevano unirsi al neonato Regno d’Italia, tra gli slavi si fece strada l’idea del “trialismo”, ossia della suddivisione dell’Impero in tre regni: Austriaco, Ungherese e Slavo, con una Slavia che si estendesse fino al Tagliamento.
Tra le due nazionalità venne a cessare quella pacifica convivenza plurisecolare e si accesero forti ostilità di carattere etnico: da un lato l’italiano cittadino, artigiano o mercante, laico e irredentista, dall’altro lo slavo contadino, cattolico e filo-austriaco. Tale odio etnico divenne – almeno da parte degli slavi, “aizzati” dal governo austriaco che temeva la nascente potenza italiana – sempre più profondo e generale. Le battaglie sull’Isonzo durante la Prima Guerra Mondiale misero in evidenza con quale ferocia gli slavi che occupavano le file dell’esercito austriaco ammazzavano e commettevano scempi sui cadaveri dei soldati italiani.
Col Trattato di Rapallo la Venezia Giulia entrò a far parte dell’Italia, coronando così il sogno degli italiani della regione. Nel 1924 anche Fiume – dopo lunghe trattative note come la “Questione di Fiume”, la lodevole impresa del D’Annunzio e non senza spargimento di sangue – venne annessa all’Italia.
Molti hanno dibattuto sull’“erroneità” di quel confine che a detta loro dava all’Italia zone palesemente slave. Va precisato a tal proposito che in realtà il confine del 1920 seguiva in massima parte la linea di spartiacque (anzi, in alcuni punti era sfavorevole all’Italia), a differenza di quella linea pretesa a Versailles dal presidente americano Wilson disegnata “in base a principi etnici” (questo stesso metro egli però non lo adottò né per la sua America, né per Francia e Inghilterra né per lo stesso confine altoatesino) e per fortuna mai approvata. Inoltre – e questo fatto non viene mai riportato – sebbene in netta minoranza, gli italiani erano presenti un po’ dovunque in Venezia Giulia, non solo in Istria, ma anche a Tolmino, Caporetto, Plezzo (più che nei paesi dei circondari di Gorizia e Trieste), nonché nelle remote Idria, Postumia Grotte e San Pietro del Carso. Non vi erano italiani a Villa del Nevoso (provincia di Fiume) e a Circonio (Jugoslavia), ve ne erano invece a Castua, Zaule della Liburnia (si veda lo studio dannunziano a tal proposito), e nella fascia costiera che va da Susak a Novi, zone queste escluse dal Regno (sebbene si tratta di piccole percentuali) Si vedano a tal proposito le cartine 3 (il confine orientale d'italia 1924-1947) e 4 (la distribuzione delle etnie in Venezia Giulia).
Durante il Ventennio Fascista furono costruite molte opere pubbliche in Venezia Giulia: le strade statali, la bonifica dell’Arsa, il potenziamento dell’industria, l’apertura di scuole ecc. Tanto è stato detto sull’atteggiamento vessatorio del Governo italiano nei confronti degli slavi. Se è vero che furono chiuse pubblicazioni e scuole slave, si cercò di ridurre al minimo l’uso delle lingue slovena e croata, tanto da provocare una certa diffusione dell’irredentismo slavo – coadiuvato dai comunisti italiani – è pur vero che non fu affatto attuata una politica sistematica di terrore o di pulizia etnica (come invece farà Tito), piuttosto si cercava (anche se bruscamente) di far assimilare agli slavi colà residenti la lingua e la cultura italiana. Inoltre il cianciato esodo “di massa” degli slavi (taluni scrivono senza conoscere le fonti di 150 mila persone!) riguardava – basti confrontare i dati del censimento del 1921 e di quello segreto del 1936 – poche migliaia di unità, così come vi era un esodo italiano e sia gli uni che gli altri abbandonarono la propria terra per cercare fortuna altrove. Inoltre la politica del Regime in quegli anni era la stessa effettuata da Belgrado nei confronti degli Italiani in Dalmazia. Infine le opere pubbliche di quel periodo (di cui molte a tutt’oggi usate da Slovenia e Croazia) favorirono un miglioramento delle condizioni sociali degli slavi stessi. L’irredentismo stesso non coinvolse tutta la popolazione slava, ma solo pochi gruppi culturali. Si arrivò così alla seconda guerra mondiale e agli anni più bui della Venezia Giulia.
Cenni storici della Venezia Giulia: dalla Seconda guerra mondiale a oggi
Nel 1940 Mussolini entrò in guerra sperando in una veloce vittoria dell’Asse e a una spartizione tra Italia e Germania del bottino di guerra. In quest’ottina nel 1941, in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, l’Italia annettè la Slovenia occidentale (creando l’autonoma provincia di Lubiana detta anche “Slovenia italiana”) e la Dalmazia (con le province di Zara, Spalato e Cattaro); fu ampliata anche la provincia di Fiume, con Veglia, Buccari e i distretti slavi di Cabar e Delnizza. Non furono invece annesse alcune isole dalmatiche che avevano un passato italiano (ad esempio la Brazza). Tali conquiste furono fatte un po’ con la stessa logica con cui Inghilterra e Francia hanno occupato le loro colonie e in quest’ottica devono essere viste; tale situazione durò fino all’8 settembre 1943 quando l’esercito italiano si ritrovò spiazzato e senza ordini. In questo periodo i partigiani slavi governati dal maresciallo Tito e coadiuvati dai comunisti italiani irruppero in Venezia Giulia Se gli italiani avevano usato violenze contro gli slavi nella prima fase della Seconda Guerra Mondiale, queste erano dovute ad una normale condotta di guerra. Ma i titini, col pretesto di liberare la Venezia Giulia dal fascismo, attuarono il loro piano di slavizzazione della Venezia Giulia, piano da attuare (a differenza dell’italianizzazione del Ventennio) con ogni mezzo barbaro e sadico e per mezzo di una pulizia etnica. Nell’ottobre del 1943 i tedeschi occuparono la Venezia Giulia e cacciarono via le truppe titine; tale occupazione durerà fino al 1945, ma non fu un’annessione: la moneta che circolava era italiana, gli atti e i tribunali erano in lingua italiana, si parlava tranquillamente in italiano, non vi fu un capillare tentativo di germanizzazione da parte dei tedeschi. Fu allora che si scoprì la tremenda verità di quanto accaduto in un mese di occupazione slava. Molti italiani erano stati barbaramente trucidati e massacrati dalla furia slava solamente per il fatto di essere tali. Nacque la dolorosa tragedia delle foibe.
Il Carso, cioè quella parte della Venezia Giulia interna che va da Gorizia a Fiume, è caratterizzato da una particolare conformazione geologica del territorio (detta appunto "carsica"), fatta di grotte, anfratti, voragini e percorsi d'acqua sotterranei. Tali voragini, che sprofondano per centinaia di metri nelle viscere della terra spesso percorse dalle acque, sono chiamate "foibe". In tutto il Carso ne sono state contate circa 1700. Queste cavità sono famose non solo per l’interesse scientifico, ma anche e soprattutto per il fatto di essere diventate strumento di martirio e orrida tomba per migliaia di infelici. I cadaveri recuperati misero in agghiacciante evidenza la crudeltà e la ferocia degli infoibatori: corpi denudati e martoriati, mani legate col filo di ferro fino a straziare le carni, colpi alla nuca, orecchie staccate, testicoli in bocca, donne incinte sventrate, sevizie orrende di ogni genere. Si ricorda il caso emblematico della studentessa Norma Cossetto.
I tedeschi occuparono il Litorale fino alla fine dell’aprile del 1945 (noto è il campo di concentramento della Risiera di San Sabba in funzione in questo periodo), quando le truppe titine liberarono dai nazisti la Venezia Giulia E’ curioso notare come Tito si preoccupasse prima di occupare Trieste e in seguito Lubiana. Togliatti fece in modo che Tito potesse precedere gli anglo-americani alla liberazione di quelle zone. La guerra era finita, ma i seguaci di Tito con una violenza ancora più inaudita di quella usata nel 1943 perseguitò gli italiani (fascisti e antifascisti) e i suoi nemici politici. Trieste venne occupata per 40 giorni. Ecco quanto scrive sui tragici giorni dell'occupazione jugoslava Diego De Castro, che fu rappresentante italiano presso il Governo militare alleato a Trieste:
" (...) forse non è inutile ricordare agli altri italiani quali furono gli orrori dell'occupazione jugoslava di Trieste e dell'Istria: gli spari del maggio 1945 contro un corteo di italiani inermi con cinque morti e innumerevoli feriti, le razzie di miliardi di allora nelle banche. nelle società, negli enti pubblici. A tutti i nostri connazionali è ormai nota la lugubre parola foiba e tutti sanno che cosa sono i campi di concentramento."
A 9 chilometri da Trieste, sul ciglione carsico, sorge il paesino di Basovizza. Nei pressi si apriva il "Pozzo della miniera", oggi meglio conosciuto come "Foiba di Basovizza", divenuta simbolo di tutte le foibe del Carso e dell'Istria, e di tutti i luoghi che hanno visto il martirio e la morte atroce di italiani, sia per il numero delle vittime che ha inghiottito, sia tragicità delle vicende connesse a tali stragi.
Un documento allegato a un dossier sul comportamento delle truppe jugoslave nella Venezia Giulia durante l'invasione, dossier presentato dalla delegazione italiana alla conferenza di Parigi nel 1947, descrive la tremenda via-crucis delle vittime destinate ad essere precipitate nella voragine di Basovizza, dopo essere state prelevate nelle case di Trieste, durante alcuni giorni di un rigido coprifuoco:
"Lassù arrivavano gli autocarri della morte con il loro carico di disgraziati. Questi, con le mani straziate dal filo di ferro e spesso avvinti fra loro a catena, venivano sospinti a gruppi verso l'orlo dell'abisso. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Sul fondo chi non trovava morte istantanea dopo un volo di 200 metri, continuava ad agonizzare tra gli spasmi delle ferite e le lacerazioni riportate nella caduta tra gli spuntoni di roccia. Molte vittime erano prima spogliate e seviziate."
Venne in seguito affrontato il problema del confine, che tanto stava a cuore agli slavi di Tito. Nel 1947 furono proposte dalle diverse potenze vincitrici quattro linee di frontiera: fu bocciata come eccessiva, quella sovietica (sostenuta anche da Palmiro Togliatti) che passava per Pontebba, Cividale del Friuli e la foce dell'Isonzo e che includeva nella Jugoslavia quasi settecento mila italiani, e bocciate quelle statunitense e inglese che pure davano alla Jugoslavia tutta la parte orientale e meridionale della Venezia Giulia, ma che lasciavano però in mano italiana tutta la costa occidentale dell'Istria, da Muggia a Pola, piú Trieste, Gorizia e Monfalcone. Fu approvata invece la punitiva proposta della Francia, che nel "Trattato di pace" di Parigi del 10 febbraio 1947 cedeva alla Jugoslavia quasi tutta l'Istria (oltre Fiume e Zara), spezzava Gorizia a metà ed istituiva il Territorio Libero di Trieste (T.L.T.). In quello stesso giorno a Pola venne ucciso dall'istriana Maria Pasquinelli il generale inglese Robin De Winton, in quanto ritenuto uno dei responsabili della cessione. Catturata, ella portava con sé la seguente dichiarazione: "Seguendo l'esempio dei 600.000 Caduti nella guerra di redenzione 1915-18, sensibile come Sauro all'appello di Oberdan, cui si aggiungono le invocazioni strazianti di migliaia di Giuliani infoibati dagli jugoslavi, dal settembre 1943 a tutt'oggi, solo perchè rei d'italianità, a Pola irrorata dal sangue di Sauro, riconfermo l'indissolubilità del vincolo che lega la Madre Patria alle italianissime terre di Zara, di Fiume e della Venezia Giulia, eroici nostri baluardi contro il panslavismo minacciante tutta la civiltà occidentale ....."
La decisione di dividere l'Istria dall'Italia, ma anche lo stato di terrore che si era venuto a creare ad opera dei partigiani slavi, determinarono l'esodo di oltre 350 mila italiani. Alcuni emigrarono all'estero, ma molti preferirono essere esuli in Patria, andando ad abitare a Trieste e nel resto dell'Italia. Pochissimi rimasero nelle loro terre: la volontà di restare italiani contagiò la maggior parte degli istriani.
L’esodo fu una reazione naturale al violento tentativo di una cruenta snaturalizzazione voluta dagli slavi. Le città si svuotarono: da Fiume fuggirono 54 mila persone su 60 mila abitanti; da Pola 32 mila su 34 mila; da Zara 20 mila su 21 mila; da Capodistria 14 mila su 15 mila. Solo a Pola l’esodo si svolse sotto la protezione inglese con navi italiane. In tutti gli altri casi, i giuliani dovettero abbandonare le case sotto il controllo dei partigiani slavi. La fuga fu tentata con ogni mezzo possibile: vecchi piroscafi, macchine sgangherate, carri agricoli, barche, a nuoto o a piedi, e spesso finiva con una raffica di mitra, con lo scoppio di una mina o sul filo spinato. Gli esuli arrivavano alla meta stremati e feriti, mentre la stampa slava sghignazzava “I fascisti scappano come ladri di galline” e De Gasperi e Scelba parlavano di una dispersione degli esuli in quanto “pericolosi nazionalisti”.
Il sogno panslavista del maresciallo Tito si era - almeno in parte - realizzato. Un sogno che aveva determinato la più grande pulizia etnica a danno dell'Italia.
Anche la parte nord della Venezia Giulia passò in territorio slavo, compreso quella Caporetto dove erano morte - a posteriori si può dire inutilmente - 200 mila persone combattendo per l'italianità di quelle terre.
Il T.L.T. fu diviso in due zone: la "zona A" (da Duino a Muggia, con Trieste) restò per qualche tempo sotto l'amministrazione angloamericana e solo nel 1954 tornò all'Italia, mentre la "zona B" (da Capodistria a Cittanova) cadde in mano jugoslava. Il trattato di Osimo firmato il 10 novembre 1975 sancì che la "zona A" e la "zona B" divenissero parti integranti rispettivamente dell'Italia e della Jugoslavia. Il trattato provocò manifestazioni di protesta a Trieste e in altre parti d'Italia, ma in generale l’opinione pubblica italiana si mostrò alquanto disinteressata all’avvenimento. Fino agli anni novanta i comunisti italiani affermavano o che gli infoibamenti furono effettuati dai nazisti o machiavellicamente che esse erano “una giusta reazione alle ingiustizie fasciste perpetrate a danno degli slavi durante il ventennio”. Offensivo nei confronti degli giuliani il bacio dato da Pertini alla bandiera jugoslavia e gli onori ai funerali di Tito nel 1980. I libri di storia inoltre omettono completamente questa dolorosa pagina scritta col sangue di diecimila - ventimila italiani, al più dedicano un trafiletto alla “Questione di Trieste”. Gli italiani sono completamente ignoranti in materia, tanto da meravigliarsi se vanno in gita in Istria e vedono campanili di stile veneziano e gente che parla l’italiano.
I recenti censimenti in Istria e nel Quarnaro hanno comunque riservato non poche sorprese: gli italiani dichiarati sono circa 30 mila ma si conta che quelli di lingua italiana siano molti di più. L'ex regime di Tito negava diritti alle minoranze, Croazia e Slovenia, per questioni internazionali, non lo possono fare; il numero di italiani è in costante aumento e alle porte della penisola "bussano" gli esuli che chiedono la restituzione delle proprietà abbandonate da più di mezzo secolo.
Le etnie nei distretti della Venezia Giulia (1921)
Città Italiani Sloveni Croati Tedeschi
Gorizia (GO) 75% 22% - -
Gradisca (GO) 87% 11% - -
Monfalcone (TS) 96% 2,6% - -
Sesana (TS) 3% 92% - -
Tolmino (GO) 3,3% 96% - -
Idria (GO) 2,8% 97% - -
Postumia G. (TS) 2,6% 97% - -
Tarvisio (UD) 14% 17% - 64%
Trieste (TS) 84% 11% - -
Capodistria (PO) 51% 33% 15% -
Lussino (PO) 68% - 15% -
Parenzo (PO) 75% 5% 20% -
Pisino (PO) 39% 2,5% 57% -
Pola (PO) 71% - 20% -
Abbazia (FM) 19% 34% 43% -
Fiume (FM) 79% 3,4% 10% -
Le etnie nei distretti della Venezia Giulia (1936)
Città Italiani Sloveni Croati Tedeschi
Gorizia (GO) 80% 20% - -
Gradisca (GO) 88% 11% - -
Monfalcone (TS) 98% 2% - -
Sesana (TS) 7,3% 91% - -
Tolmino (GO) 6% 93% - -
Idria (GO) 7% 93% - -
Postumia G. (TS) 10% 89% - -
Tarvisio (UD) 22% 15% - n.p.
Trieste (TS) 80% 18% - -
Capodistria (PO) 49% 35% 15% -
Lussino (PO) 57% - 42% -
Parenzo (PO) 72% 4% 23% -
Pisino (PO) 26% 2% 70% -
Pola (PO) 66% - 32% -
Abbazia (FM) 16% 30% 46% -
Fiume (FM) 80% 3% 16% -
Il censimento ufficiale del 1921 mostra la maggioranza numerica degli italiani in Venezia Giulia, confermata dal censimento segreto del 1936 (sebbene fosse in leggero declino in alcune zone). In tale tabella mancano i dati relativi agli italiani dell’isola di Veglia e alle presenze italiane dei paesi limitrofi a Fiume non compresi nel Regno d’Italia dopo il 1924. Il dato di Fiume riportato nel censimento del 1921 risale al 1925.
Elenco dei comuni della Venezia Giulia passati alla Jugoslavia nel 1947
Comuni già appartenenti all'antica provincia di Fiume: Abbazia; Castel Jablanizza; Castelnuovo d'Istria; Clana; Elsane; Fiume; Fontana del Conte; Laurana; Matteria; Mattuglie; Primano; Val Santa Marina (già Moschiena); Villa del Nevoso.
Comuni già appartenenti all'antica provincia di Gorizia: Aidussina; Bergogna; Cal di Canale; Canale d'Isonzo; Caporetto; Castel Dobra; Cernizza Goriziana; Chiapovano; Circhina; Comeno; Gargaro; Gracova Serravalle; Idria; Merna Comeno; Montenero di Idria; Montespino; Opacchiasella; Plezzo; Ranziano; Rifembergo; Salona d'Isonzo; Sambasso; San Daniele del Carso; San Martino Quisca; Santa Croce di Aidussina; Santa Lucia d'Isonzo; San Vito di Vipacco; Sonzia; Tarnova della Selva; Temenizza; Tolmino; Vipacco; Zolla.
Comuni già appartenenti all'antica provincia di Pola: Albona; Antignana; Arsia; Barbana d'Istria; Bogliuno; Brioni Maggiore; Canfanaro; Cherso; Dignano d'Istria; Erpelle – Cosina; Fianona; Gimino; Lanischie; Lussingrande; Lussinpiccolo; Montona; Neresine; Orsera; Ossero; Parenzo; Pinguente; Pisino; Pola; Portole; Rovigno d'Istria; Rozzo; Sanvincenti; Valdarsa; Valle d'Istria; Visignano d’Istria; Visinada.
Comuni già appartenenti all'antica provincia di Trieste: Bucuie; Cave Auremiane; Corgnale; Cossana; Crenovizza; Divaccia San Canziano; Duttogliano; Postumia Grotte; San Giacomo in Colle; San Michele di Postumia; San Pietro del Carso; Senosecchia; Sesana; Tomadio; Villa Slavina.
Comuni già appartenenti alla provincia di Zara: Zara; Làgosta.
Comuni facenti parte della zona B dell'ex territorio libero di Trieste ceduti alla Jugoslavia in base al trattato di Osimo del 10.11.1975: Buie d'Istria; Capodistria; Cittanova d'Istria; Grisignana; Isola d'Istria; Maresego; Monte di Capodistria; Pirano; Umago; Verteneglio; Villa Decani.
La Dalmazia
La Dalmazia: introduzione
La Dalmazia è quel territorio della costa adriatica orientale che va dalla baia di Buccari fino alla foce del fiume Boiana ai confini con l'Albania (vedi cartine 1 e 2). La Dalmazia non appartiene geograficamente alla Regione italiana, ma costituisce un territorio a sé, geograficamente staccato dalla Jugoslavia interna per mezzo delle Alpi Dinariche e totalmente differente da essa sia per ragioni climatiche che etniche, in quanto gli slavi dalmati hanno usi e costumi molto differenti da quelli dell'interno. La Dalmazia fino agli anni venti era costituita per quasi un terzo da italiani, che amministravano circa metà dei comuni del territorio. Gli italiani erano concentrati soprattutto sulle isole (Arbe, Lissa, Cùrzola, Lèsina, Brazza, Mèleda ed altre) e nelle città costiere in primis Zara (90 % di italiani negli anni Trenta) e Sebenìco, ma anche Spalato, Traù, Ragusa di Dalmazia, Càttaro ed altre minori. Inoltre, italiana era la cultura dominante di tutta la Dalmazia, in quanto residuo della plurisecolare dominazione della Repubblica di Venezia. I moti irredentisti in Dalmazia furono molto vivi nella seconda metà dell'Ottocento, ma furono spesso soffocati dall'Impero austro-ungarico che temeva la nascente potenza italiana. Il Patto di Londra del 1915 prometteva all'Italia il dominio su tutta la Dalmazia entro i confini allora ritenuti naturali (vedi cartina 3), ma tale promessa fu negata al trattato di Versailles per la ferrea opposizione del presidente americano Wilson. Furono annesse all'Italia solo Zara, Làgosta e l'arcipelago di Pelagosa.Tale "vittoria mutilata" ebbe come conseguenza l'esodo della quasi totalità degli italiani dalmati.
La città di Zara fu l'ultima roccaforte dell'italianità della Dalmazia e resistette fino al 1944 quando in seguito a quasi 60 massicci bombardamenti americani i partigiani di Tito entrarono nella città mettendola a ferro e fuoco e uccidendo centinaia di italiani. Ora la Dalmazia è composta nella totalità della popolazione da slavi (croati ed in piccola parte montenegrini e bosniaci). Qualche italiano si trova a Zara e a Spalato. Un dialetto di tipo veneto si riscontra in ogni caso sia a Zara che in alcune isole (Cùrzola, Lèsina).
La Corsica
La Corsica (vedi cartine 1 e 2 ) ha anch'essa cultura, usi e storia italiani. In epoca medievale fu contesa da Pisa e Genova che, dopo la battaglia della Meloria (1284), ne rimase padrona. L'occupazione genovese è mal ricordata dai corsi, contrariamente a quella di Pisa che ne plasmò il dialetto. Il 1768 è l'anno della perdita della Corsica: la Repubblica di Genova vendette l'isola alla Francia, che da anni ambiva al possesso dell'isola per un maggior controllo del Mediterraneo. Le truppe francesi (giunte a Bastia già dal 1764) sbarcarono nella restante Corsica nel 1769 e piegarono facilmente le resistenza dei corsi guidati da Pasquale Paoli. Insieme alla Corsica divenne francese la toscana isola di Capraia, che però sarà ceduta alla Toscana con la pace di Vienna del 1815. Nell'Ottocento cominciò lentamente il processo di francesizzazione della Corsica, che divenne sempre più inesorabile, tanto che agli inizi del Novecento l'italiano era quasi scomparso. Solo nelle chiese l'uso dell'italiano tardò a sparire: addirittura nel 1969 nelle montagne di Aiaccio un prete predicava ancora in italiano. Una ripresa dell'italianità della Corsica si manifestò tra le due guerre mondiali ad opera di alcuni intellettuali quali Bertino Poli, Petru Giovacchini, ecc.. Nel 1942 la Corsica fu occupata - ma non annessa - dall'Italia, ma dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 tornò nelle mani della Francia. A tutt'oggi nell'isola permangono caratteri italiani: il dialetto della sua parte meridionale è affine al gallurese mentre il corso del nord è una parlata di tipo toscano. Tracce di genovese si riscontrano a Bonifacio, un tempo luogo di prigione di galeotti genovesi. Una curiosità (che forse non tutti sanno): Napoleone nacque ad Aiaccio solamente un anno dopo la cessione della Corsica alla Francia.
I dialetti corsi e sardi
In Corsica oggigiorno è vivo un movimento che aspira all'indipendenza dell'isola dalla Francia e alla formazione di uno stato a sé. Tale movimento fa leva sulla posizione geografica dell'isola, totalmente estranea alla Francia, sulla cultura, sulle tradizioni e sulla parlata; in particolare viene contrapposto il corso al francese. In realtà il corso è una di quelle parlate locali che solo recentemente - e proprio per la profonda differenza rispetto al francese - sono state erette al rango di "lingua". Se la Corsica fosse stata italiana (come la Geografia sostiene) molto probabilmente non si sarebbe avuto nessun pretesto per avanzare richieste di autonomia linguistica. Quando la superba Repubblica di Genova - per motivi economici e per l'incapacità di governarla - decise nel 1768 di vendere la Corsica, la offrì in primo luogo al granduca di Toscana che non si dimostrò interessato; accettarono invece i francesi che all'inizio non la consideravano neppure parte integrante della Francia ma un possedimento d'oltremare. Il legame tra la Corsica e la Francia fu creato sostanzialmente da Napoleone. D'altra parte le rivolte antigenovesi scoppiate nel Settecento non avevano assolutamente carattere etnico, ma erano semplicemente una dura risposta alla continua imposizione di tributi da parte di Genova che allora viveva una profonda crisi economica. Riguardo alla parlata corsa, essa non è affatto univoca (pertanto non è esatto parlare di "lingua" corsa). I dialetti corsi si dividono in due grandi famiglie: quelli della cosiddetta Banda di dentro (cioè la costa che guarda l'Italia, detta dai Corsi "di qua dai monti"), e quelli della Banda di fuori (costa che guarda il mare aperto, detta dai Corsi "di la dai monti"); i primi fanno capo al dialetto cismontano di Bastia (simile al toscano dell'Elba e di Livorno), i secondi all'oltremontano di Aiaccio (simile al sardo-gallurese detto appunto sardo-corso). Il modello linguistico adottato dagli autonomisti corsi è quello di Aiaccio, più diverso dal modello letterario italiano rispetto al dialetto di Bastia, che invece, dopo il toscano, è in assoluto il più vicino al modello letterario italiano. L'italiano rimase lingua di cultura in Corsica fino all'incirca al 1870 quando venne sostituito "in toto" dal francese (ad eccezione dell'occupazione italiana durante la seconda guerra mondiale); attualmente in Corsica solo qualche opuscolo clandestino ed indipendentista è stampato in lingua italiana.
Viceversa, se la Sardegna avesse continuato la propria esperienza autonomista dai tempi della "giudichessa" d'Arborea quando venne creata la modernissima "Carta de Logu", forse oggi essa avrebbe maturato una struttura linguistica, culturale ed economica autonoma o magari indipendente. Pur ritenenuto da moltissimi linguisti una lingua autonoma, il sardo non ha mai avuto una codificazione letteraria completa, tant'è che vi è una grossa differenza tra dialetto campidanese e dialetto nuorese; inoltre il dialetto gallurese (sardo-corso) è considerato italiano a pieno titolo e non sardo, in quanto subisce l'influenza del "ponte corso", l'unico tramite con la penisola italiana.
L'irredentismo corso durante la Seconda guerra mondiale
L'ultimo grande momento in cui in Corsica furono vivi movimenti irredentisti per un'annessione da parte italiana fu a ridosso della seconda guerra mondiale. In quel periodo molti Corsi, vedendo più probabile una neoannessione da parte italiana, ricominciarono apertamente a guardare all'Italia e si svegliò una certa coscienza rimasta sino ad allora sopita. A Livorno il professor Francesco Guerri fondò la rivista "Corsica antica e moderna", che seguiva l'"Archivio storico di Corsica" di Gioacchino Volpe. All'Università di Pisa i numerosi studenti corsi (tra cui spiccavano Giovacchini, Angeli e Poli) fondarono i "gruppi di cultura corsa". Tutto ciò ebbe fine nell'ottobre del 1946, quando il Tribunale per la difesa dello Stato francese, riunito a Bastia, condannò a morte i patrioti corsi Poli, Angeli, Giovacchini, Marchetti, Luccarotti e Grimaldi; si salvò solo il Grimaldi che era esule ed apolide in Italia e per il quale la Francia non chiese l'estradizione. Nel frattempo un analogo tribunale decreterà ad Algeri l'impiccagione dei colonnelli Cristofini e Pantalacci per collaborazionismo con il nemico (cioè gli italiani); in realtà essi erano tra i più ferventi fautori dell'annessione all'Italia della loro isola; per lo stesso reato il colonnello Mondielli e la giornalista Renucci scontarono lunghe pene, così come monsignor Domenico Parlotti, il dottor Croce, conservatore degli "Archivi di Stato della Corsica", e Petru Rocca segretario del Partito autonomista corso.
La Corsica oggi
I Corsi residenti in Corsica oggigiorno sono solo 260.000 circa, quelli costretti negli anni ad emigrare per il mondo sono invece oltre un milione. Molti di essi sono andati in Francia dove è stato offerto loro lavoro soprattutto nella pubblica amministrazione, francesizzandosi così velocemente. La politica di francesizzazione delle popolazioni alloglotte è stata particolarmente vessatoria nei confronti della Corsica. Essa addirittura fino al 1972 era aggregata alla regione Provenza-Costa Azzurra-Alpi-Corsica. L’abilità della Francia nel costruire regioni e dipartimenti che mettessero in secondo piano gli elementi ad essa estranei ed alloglotti, non era nuova: già nel 1860 il territorio della vecchia Contea di Nizza venne aggregato alla zona provenzale di Grasse e Cannes creando così un inedito dipartimento. Si ricordi inoltre che in Francia l'unica lingua ufficiale ed insegnata nelle scuole è il francese, come scrive Marzio Scaglioni “con buona pace dei principii di libertà ed espressione codificati fin dal lontano 1789”. Inoltre per legge in Corsica non si possono avere nomi propri italiani, ma solo francesi. All’atteggiamento nazionalista della Francia si accompagna l’indifferenza degli italiani i quali conoscono la Corsica più che altro come meta turistica d’élite.
La Svizzera Italiana (vedi cartina 1) comprende tutto il Canton Ticino e la valle Mesolcina del Cantone dei Grigioni; vanno incluse in essa anche le valli Bregaglia e di Poschiavo, fisicamente staccate dalla restante parte. In tali zone si parla quasi esclusivamente l'italiano ed il dialetto è di tipo lombardo. Si ricorda che il Canton Ticino fu ceduto dal Ducato di Milano alla Svizzera nella prima metà del Cinquecento; esso fino alla seconda metà dell'Ottocento faceva parte delle diocesi di Milano e Como (vedi cartina 2). Le comunicazioni a tutt'oggi sono più intense con l'alta Italia che con la restante Svizzera.
Rientrano nei confini geografici d'Italia anche la Val Monastero (Cantone dei Grigioni) ed il passo del Sempione (Cantone Vallese); gli abitanti di questi due lembi di terra sono di parlata rispettivamente ladina e tedesca. Di contro vi sono alcuni piccoli territori appartenenti all'Italia politica ma geograficamente transalpini: la Val di Lei e Livigno (vedi cartina 3).
Le varietà linguistiche e dialettali del Cantone dei Grigioni
Il Cantone dei Grigioni mostra determinate peculiarità linguistiche che fanno sì che esso sia l'unico Cantone svizzero trilingue. Le lingue parlate sono: il tedesco (da circa i due terzi della popolazione), il romancio (ladino) e l'italiano (da meno di un quinto della popolazione). Ognuna di queste lingue presenta a sua volta distinti dialetti, mai uniformatisi tra di loro.
Il tedesco ha tre dialetti locali: il "Walserdeutsch" parlato nella val di Reno, a Vals, ad Arosa e nell'enclave di Obersaxen; il "Bündnerdeutsch" tipico di Coira e dei suoi dintorni; un dialetto tra il bavarese ed il tirolese parlato a Samnaun.
Il romancio, idioma neolatino che presenta molte influenze tedesche, si suddivide in cinque varietà locali: il Soprasilvano (parlato nella Valle del Reno Anteriore a nord di Flims), il Sottosilvano (nel centro dei Grigioni), il Sopramirano (da Bivio a Tiefencastel), il Putér e il Vallader in Engadina e in Val Monastero, valle quest'ultima geograficamente appartenente all'Italia e contigua a valli altoatesine di antica parlata ladina. Vi sono inoltre isole linguistiche ladine in alcuni paesini nei pressi di Coira; d'altra parte la città stessa fino al Settecento era ancora a parlata ladina (nome ladino: "Cuera"). Fino al medioevo il romancio era parlato dalla maggioranza dei grigionesi; successive emigrazioni di tedeschi hanno in seguito favorito una certa germanizzazione della regione fino al passo dello Spluga e di San Bernardino.
L’italiano viene parlato in quattro valli dei Grigioni, al di qua dello spartiacque alpino: Mesolcina, Val Calanca, Val Bregaglia e Valposchiavo. I dialetti locali sono abbastanza diversi tra loro: il "Bregaliot" della Val Bregaglia è un dialetto lombardo con molte influenze ladine; il "pus'ciavin" (di Poschiavo) è una continuazione del valtellinese mentre i dialetti del Moesano sono imparentati con quelli del Canton Ticino.
Purtroppo la lingua italiana in queste valli si è indebolita molto, sia per una cospicua presenza di abitanti alloglotti, sia per la diffusione dei mass-media in lingua tedesca. La vita culturale di tali valli è però orientata verso l'Italia (e il Canton Ticino), mentre da poco si sta mettendo in atto una campagna di sensibilizzazione per la conservazione della lingua italiana, reintroducendo l'italiano nelle scuole elementari delle valli e favorendo la continuazione degli studi nel ticinese.
Il Nizzardo
Nizza, Monaco e territori minori
La Contea di Nizza era quel territorio - di parlata italiana - che comprendeva quasi tutto il bacino del fiume Varo e parte della vallata del Roia e del Bevera. Il capoluogo era Nizza, denominata "Nizza Marittima" per distinguerla da Nizza Monferrato in Piemonte. La Contea appartenne al Regno di Sardegna fino al 1860, in seguito fu ceduta dal Cavour alla Francia; l'intensa opera di francesizzazione ha avuto effetto soprattutto nella città di Nizza Marittima, ma anche il restante territorio non ne è rimasto immune. Fu favorita una progressiva diffusione della lingua francese a danno di quella italiana: ad esempio vennero chiuse tutte le pubblicazioni dei giornali italiani (come "La voce di Nizza"); furono cambiati persino molti cognomi degli autoctoni ("Bianchi" => "Leblanc"; "Del Ponte" => "Dupont" ecc.). L'italianità di Nizza è andata scomparendo a mano a mano: negli anni trenta solo il centro storico era a maggioranza italiana, ora la città è totalmente a parlata francese. L'italiano è comunque la seconda lingua della città e il dialetto nizzardo è sostanzialmente di tipo ligure. Cultura autoctona è rimasta maggiormente nei paesi dell'interno oltre che a Mentone e nello stato di Monaco: la flessione dialettale - oltre che gli usi e le tradizioni - è di carattere ligure. Interessante inoltre è vedere che una buona fetta di cognomi dei residenti in tale regione è italiano: non ci si sorprenda quindi se troviamo "Giorgi" e "Delrivo" a Poggetto Tenieri, "Baldacci" e "Paolini" a Guglielmi, "Rosso", "Andreoli" e "Ceccarini" alla Turbia ecc. Limite occidentale della Contea di Nizza al di là del quale si entra nella francesissima Provenza era - come già affermato - il fiume Varo, fin dall'antichità designato come limite occidentale della regione italiana (vedi cartine 1 e 2).
Nel 1947, in seguito al Trattato di Parigi, furono ceduti alla Francia il comune di Tenda e parte dei comuni di Briga Marittima, Valdieri e Olivetta San Michele; anche queste zone furono immantinente soggette a francesizzazione. Una certa fetta della popolazione, per aver scelto di non diventare di cittadinanza francese, prese la via dell'esodo. Altri territori, di estensione limitata ma di grande importanza strategica, furono annessi alla Francia: il passo del Monginevro, la Valle Stretta del monte Tabor (ad ovest di Bardonecchia), il passo del Moncenisio ed una parte del territorio del Piccolo San Bernardo col celebre ospizio (vedi cartine 3 e 4). In tale zona, va precisato che la cima del Monte Bianco, contrariamente a quanto taluni sostengono, non appartiene alla Francia ma su di essa corre la linea del confine politico attuale.
La cessione di Nizza e Savoia alla Francia
La cessione di Nizza e Savoia alla Francia fu voluta da Camillo Benso conte di Cavour, per ottenere il "placet" di Napoleone III che aveva mire nelle due regioni. Il Cavour ritenne – a torto o a ragione – necessario il loro sacrificio alla Francia per portare a compimento l'unione d'Italia. Non tutti i politici approvavano il piano, in quanto se la Savoia (seppure legata a un vincolo dinastico all'Italia) era per lingua e usi francese, la Contea di Nizza era italiana non meno di Piemonte e Liguria. L'oppositore più ferreo era ovviamente Giuseppe Garibaldi, in quanto Nizza Marittima era la sua città natale, ma forti critiche venivano anche dall'opposizione della destra conservatrice e della sinistra che sostenevano che la cessione era "un vero e proprio asservimento del governo cavouriano alla Francia". Anche la stessa Londra (forse temendo una maggiore espansione della Francia) esprese i suoi malumori su tale decisione. Ma Cavour, nonostante le varie opposizioni, indisse un plebiscito sia nel Nizzardo che in Savoia, con la chiara intenzione di pilotarlo in chiave filofrancese. E' eloquente la lettera che egli scrisse il 27 marzo 1860 a Costantino ***** "...bisogna assicurare, con misure abili, il successo del voto a favore della Francia". Permise inoltre l'arrivo a Nizza Marittima del ministro di polizia di Napoleone III per abbindolare l'opinione pubblica. Garibaldi, furibondo per ciò che stava accadendo, volle comparire a Nizza Marittima e parlare alla popolazione della città, ma il Re Vittorio Emanuele d’accordo col Conte intervenne per distoglierlo. In seguito Garibaldi interpellò il Ministero sul trattato di cessione di Nizza e Savoia, e sostenne che essa violava i patti con cui quella città si dava alla dinastia sabauda e pregiudicava la fama della monarchia e la sicurezza del Regno; reclamò infine che non si procedesse al plebiscito prima dell'approvazione del trattato da parte del Parlamento.
Nonostante gli sforzi dell'Eroe dei due mondi, il plebiscito viene effettuato il 15 e il 22 aprile. I suoi risultati sono: nella Savoia 130.538 voti per l'annessione alla Francia e 235 contrari e a Nizza 24.448 contro 160, risultati, questi ultimi di Nizza, ottenuti con ogni mezzo illegittimo e contrastanti alla vera volontà della popolazione, che si sentiva italiana. A conferma di ciò, riporto una notizia tratta dalla tesi dell'amico Marzio Scaglioni ("La presenza italiana in Dalmazia 1866-1943"): "Solo i 119 marinai nizzardi di stazza sulle navi sabaude nei vari porti votarono liberamente e così si espressero: 114 per l'Italia e 5 per la Francia."
Dopo il plebiscito, avvenne la discussione alla Camera; ad essa presero parte numerosi deputati, fra cui Rattazzi, Guerrazzi e Cavour. Riporto la parte finale del discorso del Guerrazzi, che elenca i motivi per cui non votò al trattato:
"Non lo voto perché inviato al Parlamento italiano per operare quanto mi è dato a unire in un corpo solo l'Italia, diventerei mandatario infedele e mancherei di coscienza se con il primo voto cominciassi ad approvare il taglio di un pezzo nobilissimo della mia patria.
Non lo voto perché la Toscana e l'Emilia annesse al Piemonte non crescono l'Italia, mentre con la perdita di Nizza rimarrà in perpetuo manomessa l'Italia.
Non lo voto perché credo e farei torto alla generosa Francia a credere che questa volesse sottoporci a queste forche caudine.
Non lo voto perché questa necessità non fu dimostrata, né fu chiarito se è stato fatto quanto era debito fare un Ministero che si vanta italiano per evitarla; né salva opporre che la discretezza vieta palesare le cause della necessità, perché, dopo avere affermato che bisogna piegare il capo alla prepotenza, che cosa si può dire di peggio noi non sappiamo.
Non voto perché potendo scindersi il trattato, per riverenza alle nazionalità, gran parte della Savoia, ricorrendo certe contingenze, avrei ceduto. Nizza invece non l'avrei ceduta mai.
Non voto perché mi sono sicuri i vantaggi presenti, né chiari gli avvenire, memore del proverbio: "palabras y plumas el vento las lieva".
Non voto perché la votazione calpesta la legalità, santa custode del diritto.
Non voto perché con questo trattato aborro mettere in mano all'amico un'arma per cui più tardi crescendogli il sospetto, aumenti nelle pretese di volersi assicurare, e al nemico un pretesto di fermarsi in qualche parte d'Italia con la ragione di bilanciare la potenza francese.
Non voto perché, mentre G. Garibaldi mette allo sbaraglio la vita per conquistarci con la spada la patria, mi pare delitto levargli con il mio voto la sua.
Non voto perché, depositando il voto nell'urna, mi parrebbe conficcare un chiodo nella bara dell'unità italiana. No; non possiamo unire l'Italia, tolga Dio che per noi non vada divisa. Per seppellire i morti si chiamano i becchini, non i liberi italiani nel primo Parlamento italiano".
Rattazzi sosteneva che si sarebbe potuto evitare il sacrificio di Nizza procedendo ugualmente alle annessioni, e propose alla Camera di astenersi.
Anche il discorso del Cavour fu notevole; egli difese la sua politica e sostenne l'utilità dell'alleanza con la Francia. Tentò anche di "dimostrare la non italianità di Nizza"; ma le motivazioni addotte non erano per nulla plausibili, anzi a volte persino puerili e alle quali sicuramente nemmeno lo stesso Cavour credeva. Il 29 maggio la Camera approvò il trattato con 225 voti favorevoli, 33 contrari e 23 astenuti.
La discussione fu in seguito portata al Senato. Anche in tale sede si discusse molto del trattato. Fu particolarmente commuovente il discorso dell'ex ministro nizzardo Giovanni De Foresta che, pur rassegnandosi al doloroso sacrificio, si ribellò fieramente all'idea di chi considerava Nizza Marittima non italiana.
"Io vorrei pertanto, o signori, che si abbandonasse l'argomento dell'esclusione e del dubbio della nazionalità di Nizza, che per me rende il trattato tanto più doloroso. Non vorrei che si sostenesse oggi una tesi, che vi obbligherà domani a dire che Garibaldi non era italiano, che quella città che con il suo coraggio, con la sua fedeltà, con la sua costanza salvava già la monarchia sabauda non era città italiana .... Cedete se inesorabile necessità vi obbligano a questo doloroso sacrificio, cedete il territorio Nizzardo, ma non cedete le sue tradizioni, i suoi fasti, le sue glorie, che sono pur glorie nostre, perché sono glorie italiane. Signori, io qui pongo termine alle mie spiegazioni e, come ho detto, sia carità di patria, sia dignità personale mi obbligano a deporre contrario il mio voto all'urna. Io non mi lusingo di avere nella medesima molti voti uguali al mio. Fra pochi giorni il trattato sarà dunque ratificato. Nizza, la città fedelissima, sarà una città francese; io però non cesserò di essere italiano e con voi farò voti che, come già una volta, la fedeltà, il coraggio e la costanza di Nizza salvò la dinastia sabauda, ora il di lei sacrificio serva a condurla agli alti e finali suoi destini e al pieno trionfo della causa italiana".
La cessione di Nizza venne approvata dal Senato con 92 voti contro 10. Il 10 giugno del 1860 il grande sacrificio fu compiuto: Nizza Marittima e il suo territorio passarono, insieme alla Savoia, alla Francia. A partire da allora e per i prossimi due anni, circa diecimila italiani lasciarono la Contea per arrivare esuli in Italia.
Si ricorda che, nonostante la notifica del primo parlamento italiano, la cessione di Nizza è rimasta per lungo tempo un conto aperto tra l'Italia e la Francia; si ritratterà sulla questione più volte nei successivi anni; la prima (in un modo subdolo) nel 1870; l'ultima quando nel 1940 Mussolini attacca la Francia.
La val Roia
Il Roia è quel fiumiciattolo che parte dal Col di Tenda e sfocia, dopo aver attraversato gole e colline in un percorso tormentato e suggestivo, in prossimità di Ventimiglia. La sua vallata, famosa per le sue bellezze naturali, ha subìto negli ultimi 140 anni, cioè da quando la Contea di Nizza passò alla Francia, i destini del confine occidentale dell’Italia. Infatti con la cessione della Contea, il fiume Roia nasceva in Italia, per passare il confine di stato due volte, lasciando alla Francia i paesi di Breglio e Saorgio e all’Italia Tenda, Briga Marittima e ai vecchi "territori di caccia" dei Savoia (cioè i territori di testata dei fiumi Tinea e Vesubia). Tale linea confinale è stata "ritoccata" nel 1947 quando sono stati sottratti all'Italia i paesi di Tenda e Briga Marittima. La parte francese della val Roia, nonostante l'opera di francesizzazione fatta dal 1860 e dal 1947, mantiene nei dialetti dei suoi paesi le caratteristiche della parlata ligure. Do un elenco dei vari paesi con breve descrizione.
Airole è forse il paese più importante della valle con i suoi circa 500 abitanti. Il borgo, sito a 149 metri sul livello del mare, è arroccato su un colle che sovrasta il fiume Roia e si sviluppa, nella parte più antica, a "gironi" concentrici che salgono fino ai pochi resti del castello.
Olivetta San Michele è capoluogo di un gruppo di borgate, che comprendevano anche Piene e Libri, passate nel 1947 alla Francia. Il castello della Penna fu motivo di varie contese a causa della posizione strategica che permetteva di ben controllare i traffici lungo la "strada del sale" della Val Roia.
Sospello è un tipico paese dell'alta valle che permette sino dal XVI secolo il passaggio dalla Val Bevera alla Val Roia.
Breglio è un tranquillo paese che sorge sulle rive di un lago formato dal fiume Roia. Nel 1947 sono state annesse al comune di Breglio le frazioni italiane di Piena e Libri.
Saorgio è un delizioso borgo, caratteristico per i suoi portici ed i suoi stretti vicoli.
Fontane si trova proprio nel cuore della val Roia, il villaggio si distende lungo il fiume fra le sue gole rocciose.
Berghe è un'antica cittadina del XIV secolo dalle facciate dipinte e dai preziosi architravi e si trova in una valle parallela, la valle della Levenza. E' passata alla Francia nel 1947.
Nostra Signora del Fontan è situata a strapiombo sopra un torrente, circondata da boschi è collegata con Briga Marittima e Triora da un'antica mulattiera.
Briga Marittima è situata su un piccolo pianoro tagliato dal torrente Livenza, affluente della Roia. Il paese, il cui nome avrebbe un'origine celtica, ha conservato molte interessanti testimonianze del passato. Caratteristico è l'idioma del paese e della cosiddetta "terra brigasca", comprendente il vecchio comune di Briga Marittima e i paesi di Verdeggia (comune di Triora) e Viozzene (comune di Ormea). Parte del vecchio comune di Briga Marittima è rimasto all’Italia, con le frazioni di Piaggia, Carnino e Upega, che costituiscono l’odierno comune di Briga Alta (prov. Di Cuneo) e Realdo che è stato attribuito a Triora (IM). Il paese con altre sue frazioni nel 1947 è invece passato dalla provincia di Cuneo alla Francia.
Tenda è il più vasto comune del dipartimento. Il borgo arroccato dai tetti di pietra è circondato da tipiche colture a terrazza. Dal vicino paese di San Dalmazzo di Tenda si accede alla valle delle Meraviglie, un parco di grandissimo interesse ambientale e storico, sono presenti nel parco più di trentamila incisioni rupestri dell'età del bronzo.
Granile è una frazione di Tenda con una decina di abitanti, molto tipiche le case addossate, i balconi in legno e i tetti di pietra.
Nel 1987 le Edizioni Team 80 (via Boccaccio 19, 20123 Milano) pubblicano il libro di Marcolini "Val Roia mutilata" in cui si descriveva la vicenda politica di Nilla Gismondi, la fondatrice del "Comitato per l'italianità della val Roia", che si oppose ad un comitato per l'annessione alla Francia, finanziato dai suoi servizi segreti e guidato da brigaschi naturalizzati francesi da ormai lungo tempo. Dopo l'annessione, il Comitato della Gismondi si adoperò per scorrere tutti quei profughi che, per non diventare cittadini francesi, giunsero in Italia dalla Val Roia. Nel 1989 Gianluigi Ugo pubblicò, per le edizioni Xenia di Milano la ricerca "Il confine italo-francese" studio abbastanza completo e approfondito sull' argomento, mentre nel 1995 Giulio Vignoli dedicava a Briga e Tenda un capitolo del suo "I territori italofoni non appartenenti alla Repubblica italiana", uscito da Giuffrè.
Per dimostrare quanto Briga e Tenda fossero di sentimenti francesi, si ricorda che il 2 giugno 1946 in occasione del referendum istituzionale la maggioranza dei brigaschi votò per la monarchia e a Tenda la repubblica superò la monarchia per soli 66 voti. Ottennero la maggioranza dei voti nelle elezioni per l'Assemblea Costituente i partiti contrari all' annessione (DC, Destre e PRI). L'unico partito "italiano" favorevole alla cessione era quello socialista, ed i servizi segreti francesi fecero una forte propaganda affinchè la gente lo votasse. Paradossalmente, invece, fu molto critico nei confronti dell'annessione il capo carismatico dei socialisti francesi, Lèon Blum, secondo il quale l'amicizia tra Francia e Italia valeva assai più del possesso di Briga e Tenda. Tale atteggiamento di Blum, oltre che dei suoi interventi scritti ed oratori dell'epoca, è stato confermato anche dalla pubblicazione dei diari di Pietro Nenni.
Negli anni immediatamente successivi all' annessione, la Francia operò una specie di pulizia etnica senza spargimenti di sangue, eliminando lapidi, tombali e non, in italiano, mutando la toponomastica locale fin quasi all'ultimo casolare e sostituendo la scritta sotto il monumento al brigasco colonnello Giovanni Pastorelli, morto nella battaglia di Ain Zara (Libia) nel 1911, diventato Jean Pastorelli, caduto su un non meglio precisato "champ d'honneur".
Il Principato di Monaco
La piccola città di Monaco nella costa ligure costituisce, con le minori località circonvicine, il Principato di Monaco che, occupando una superficie di 1,6 kmq, è fra i più piccoli stati d'Europa. Il centro abitato domina dall'alto ed erto promontorio una piccola ma sicura ansa costiera posta a nord, eccellente approdo, grazie al riparo delle montagne circostanti, per le navi. Oggi ancora la città, così fabbricata sul promontorio alto 63 m s.l.m. conserva il suo aspetto forte di vecchia cittadella; ma le costruzioni moderne fano in modo che Monaco è tutt'uno con gli abitati di: La Condamina, Montecarlo, La Costa, San Michele, Moneghetti, Castelleretto ecc. ed il paese francese di Belsole. Il Principato fino al 1848 comprendeva anche le due località di Mentone e Roccabruna, e vive dal 1860 in poi, con la sua effimera sovranità, sotto la protezione della Repubblica francese. La superficie è quasi totalmente inurbata; la popolazione parla il francese, ma il dialetto locale (il monegasco) è una parlata mista tra ligure e provenzale. E' tuttora presente a Monaco l'elemento italiano, che però è molto fluttuante, in quanto gli italiani vengono nel Principato tutt'al più per lavori stagionali. La storia di Monaco è intimamente connessa a quella della Liguria; nel 1297 Franceschino Grimaldi detto "Malizia" se ne impossessò. Da allora Monaco divenne possesso (salvo qualche parentesi) della nobile famiglia (da ritenersi di origine italiana), che governa tuttora lo staterello.
L'Alto Adige
L'Alto Adige, politicamente italiano, è abitato per oltre due terzi da tedeschi. Tale regione nell'antichità era soggetta a Roma: tracce dell'epoca romana sono diffusissime ovunque. I tedeschi hanno iniziato a penetrarvi nel medioevo, germanizzando dapprima la Pusteria e la zona di Merano e poi la maggior parte delle altre vallate a nord della Stretta di Salorno. La zona tra il Brennero e Bolzano venne tedeschizzata nel Seicento, sopprimendo il ladino. Nel XIV secolo la tedeschizzazione di Silandro, Ortisei e Chiusa era poco progredita, mentre nel XV secolo erano ladine ancora le valli Gardena, Tires, Eores e Gudon. Va detto anche che nel corso dei secoli l'Alto Adige subì opere alterne di italianizzazione e di germanizzazione più o meno intense. Nel Settecento Maria Teresa d'Austria eliminò molti caratteri italiani della regione; come conseguenza di ciò la percentuale degli italiani si abbassò progressivamente. Erano però sentiti i legami – non solo geografici - tra l'Alto Adige ed il resto d'Italia. Nel 1861 il bolzanino Carlo de Zellinger, vice capitano della dieta tirolese, sosteneva che 'le due regioni separate dal Brennero sono interamente diverse per cultura, per sviluppo e per ogni altra cosa; che gli interessi del Tirolo meridionale tedesco sono identici a quelli del Tirolo italiano'. Ancor più in là andava il segretario della Camera di Commercio di Bolzano, dott. Angerer, sostenendo nel 1864 che la regione al sud del Brennero dovesse essere aggregata alla Venezia. Dopo l'anno 1866 la Venezia Tridentina restò divisa dalle altre della penisola. Da allora si sviluppò intensamente l'opera di germanizzazione, col lavoro concorde del governo imperiale di Vienna, del governo provinciale di Innsbruck e delle associazioni pangermaniste. La condizione degli italiani peggiorò. Il censimento del 1869 rilevava l'8,7 % di italiani nel Tirolo meridionale tedesco, che divennero il 7,8 % nel 1880 ed il 9,1 % nel 1890. Nel 1918 i confini d'Italia furono portati fino allo spartiacque naturale (includendo anzi una piccola zona transalpina in prossimità di Dobbiaco - vedi cartina 1) e da allora sono sempre rimasti invariati. Negli anni venti e trenta la zona fu parzialmente italianizzata; in seguito cominciò ad emergere il problema della minoranza tedesca. Esso venne affrontato in maniera sistematica dopo gli attentati degli anni cinquanta e sessanta ad opera di estremisti con la promulgazione di leggi a protezione della minoranza tedesca e della sua cultura.
La questione altoatesina
Passato insieme al Trentino all'Italia al termine della prima guerra mondiale col trattato di Saint Germain, il territorio dell'Alto Adige costituì dal 1926 la provincia di Bolzano. Il Governo fascista vi adottò, almeno in un primo tempo, una politica di italianizzazione della zona. Dopo l'annessione dell'Austria alla Germania (1938) crebbero e si manifestarono nella provincia dei sentimenti pangermanisti già latenti. La questione sembrò risolta dall'accordo fra i governi italiano e tedesco del giugno 1939 che prevedeva un plebiscito tra gli abitanti di lingua tedesca perché scegliessero "definitivamente" fra il trasferimento nei territori del Reich o la permanenza in Italia. Circa il 70 % degli altoatesini scelse di trasferirsi in Germania; il trasferimento fu però ostacolato dagli eventi della Seconda guerra mondiale, tanto che emigrarono effettivamente solo 70 mila persone su 185 mila, poi rientrate in Italia a guerra finita. In seguito a una richiesta di restituzione da parte austriaca dell’Alto Adige e di una riunificazione del “Tirolo tedesco”, l’Italia si oppose in quanto l’Alto Adige era geograficamente italiano, e uno smembramento della Venezia Tridentina avrebbe prodotto un peggioramento economico di ambedue le province, separate sì da un fattore etnico (che peraltro non è così netto), ma intimamente legate tra loro dalla geografia, dalla storia, dall’economia. Fu indi sancito l’accordo De Gasperi – Gruber, che assicurava il mantenimento dell’Alto Adige all’Italia, con una completa autonomia amministrativa culturale ed economica all'Alto Adige. Tra l'altro era previsto il riconoscimento del pieno diritto dei cittadini di lingua tedesca all'accesso alla pubblica amministrazione, dove veniva introdotto ufficialmente il bilinguismo. L'Assemblea costituente accolse il trattato, concedendo uno statuto speciale alla Regione Alto-Adige (31 gennaio '48) all'interno della quale la provincia di Bolzano otteneva una larga autonoma legislativa e amministrativa che ne faceva, praticamente, una "regione minore". Tale politica era già molto più rispettosa e benevola nei confronti della minoranza alloglotta di quanto non lo fosse stata quella riservata agli italiani d’Istria sotto il regime di Tito. Ciò nonostante una certa percentuale di abitanti di lingua tedesca, sentendosi “alloglotti” in uno stato dove erano e sarebbero stati sempre una minoranza, desideravano l’annessione della regione all’Austria. Nacque così il Sudtiroler Volkspartei (Partito popolare del Sud-Tirolo), partito estremista fondato nel 1946 a Bolzano che, sotto la maschera dell'obiettivo di ottenere l'istituzione di una regione autonoma per la provincia di Bolzano, mirava in realtà all'autodecisione e all'annessione all'Austria. A dar vigore a queste correnti estremiste intervenne nel 1956 lo stesso governo austriaco con la presentazione di un memorandum all'Italia contenente lamentele circa i modi di applicazione dell'accordo De Gasperi-Gruber (mancata realizzazione dell'autonomia, della parificazione dei diritti dei cittadini, delle lingue ecc.). D’altra perte l’Austria aveva tutti gli interessi ad acquistare una regione al di là della cerchia dele Alpi, diminuendo in tal modo l’isolamento dal mare; anche questo a mio parere è una causa dell’appoggio austriaco al Sudtiroler Volkspartei. Intanto si sviluppa una cruenta e barbara battaglia da parte di nuclei di terroristi altoatesini. Nel decennio fra il 1956 e il '66, vi furono oltre trecento attentati a centrali elettriche, tralicci dell'alta tensione, stazioni ferroviarie. Dal 1964 vengono prese dì mira le forze di polizia, nove tra carabinieri, guardie di frontiera e finanzieri sono trucidati fra il '64 e il '66. Con l'attentato di Cima Valona (23 giugno '67) la situazione sembra precipitare, i negoziati in corso fra i due paesi ormai da due anni tornano in alto mare. Sarà soltanto nel 1971 che la situazione si sbloccherà con l'approvazione da parte dei parlamenti italiano ed austriaco del cosiddetto "pacchetto", contenente provvedimenti che ampliano ulteriormente i poteri legislativi e amministrativi di Bolzano e Trento. Il trattamento riservato dall’Italia alla minoranza tedesca è a tutt’oggi da ritenersi tra i migliori al mondo, anzi talvolta la minoranza italiana nell’Alto Adige ha gli stessi diritti di quella tedesca.
La Venezia Giulia
Altra regione culturalmente, storicamente e geograficamente italiana è sempre stata la Venezia Giulia (vedi cartina 1). Il confine politico in questa zona si discosta notevolmente da quello naturale: è italiano il piccolo territorio transalpino di Tarvisio, una volta di parlata tedesca (Tarvis); l'Italia, di contro, è mozzata di tutta la sua parte orientale. Il confine infatti, anziché seguire lo spartiacque principale delle Alpi, traccia un percorso molto irregolare tagliando in due la città di Gorizia ed escludendo dall'Italia: l'alta valle dell'Isonzo e dei suoi affluenti, il Carso, l'Istria, le valli della Piuca e di Circonio, il Quarnaro (con le isole Cherso, Lussino e Veglia) e la costa liburnica con Fiume. La Venezia Giulia entrò a far parte dell'Italia nel 1920 (Fiume nel 1924); il confine politico di allora seguiva in massima parte lo spartiacque naturale (vedi cartina 2), escludendo però all'Italia Longatico, la conca di Circonio, la valle dell'Eneo, la Liburnia da Fiume a Buccari e l'isola di Veglia.
Amministrativamente la Venezia Giulia era suddivisa in quattro province: Gorizia, Trieste, Pola e Fiume. Gli slavi costituivano il 40 % circa della popolazione totale ed erano concentrati per lo più nelle campagne e: nell'alta valle dell'Isonzo e dell'Idria (Tolmino, Caporetto, Plezzo, Idria, Circhina, Godovici, Zolla, ecc.), nella zona di Postumia Grotte, di Villa del Nevoso e di San Pietro nel Carso e nell'Istria nord-orientale (Castelnuovo d'Istria), zone queste estese ma con bassa densità di popolazione. Gli italiani erano soprattutto nelle città e nei paesi maggiori (Trieste, Gorizia, Fiume, Pola, Parenzo, Rovigno d'Istria, Capodistria, Albona, Buie d'Istria, Umago, Lussinpiccolo ecc.), nell'Istria occidentale e meridionale, in buona parte della valle dell'Isonzo, nella costa liburnica, a Lussino e parzialmente ad Abbazia, Pisino, Pinguente, Cherso, Veglia. Le percentuali degli italiani a Pola e Fiume erano rispettivamente 70 e 80 % circa. Il carattere culturale predominante inoltre è sempre stato italiano e parte della popolazione slava - al contrario degli italiani - era bilingue. La pulizia etnica operata a partire dal 1943 da Tito e pagata col sangue di 20 mila italiani morti tra foibe e campi di concentramento e la conseguente emigrazione dei 350 mila italiani ha quasi completamente slavizzato la Venezia Giulia, segnando così la morte di una cultura che per secoli aveva caratterizzato la zona. Oggi in Venezia Giulia si contano circa 30-40 mila italiani, che sperano in future leggi che li proteggano adeguatamente.
Cenni storici della Venezia Giulia: da Roma alla Seconda guerra mondiale
Il termine Venezia Giulia fu creato nel 1863 dal dialettologo Isaia Ascoli e designava i territori orientali d’Italia dall’Isonzo-Natisone alla cerchia delle Alpi e Prealpi Giulie che chiudono a oriente l’Italia, comprendendo in essa tutta la penisola istriana.
La storia dell’italianità della Venezia Giulia ha origine con la sua conquista da parte dei Romani nel II secolo a.C. I Romani fondarono numerose città tra cui Tergeste (Trieste), Pietas Julia (Pola), Tarsatica (Fiume) ecc. Nel 27 a.C. l’Italia fu divisa in undici regioni e la Venezia Giulia venne a far parte della “Decima Regio – Venetia et Histria”, fino al fiume Arsa. La Dalmazia invece divenne provincia senatoriale. La conquista di Istria e Dalmazia era molto importante per Roma, in quanto veniva creata una zona di sicurezza sul lato orientale d’Italia, di cui queste regioni erano considerate parte integrante.
Il passaggio tra romanità e italianità avvenne senza soluzione di continuità. Solo dopo la caduta dell’Impero romano d’Occidente, più precisamente a partire dal 600 d.C., vi fu una prima penetrazione di slavi in Venezia Giulia In seguito, una parte dell’Istria venne conquistata da Venezia, che influenzò culturalmente e linguisticamente la regione. Nel Trecento una grave epidemia sterminò praticamente la popolazione dell’Istria e Venezia fece trasferire nelle città mercanti e artigiani della Carnia e della laguna veneta, mentre nelle campagne favorì l’immissione di Slavi che fuggivano all’interno della penisola balcanica di fronte alla minaccia turca. Dopo la caduta di Venezia e la parentesi napoleonica, con la Restaurazione il Lombardo-Veneto venne assegnato all’Austria. Essa progettò e attuò il potenziamento del porto di Trieste fino a farlo diventare il più importante dell’Impero e mise a capo un Governatore, in modo tale da capeggiare l’amministrazione locale una classe fedele e adatta ai nuovi compiti che si identificasse con la cultura tedesca. Ma il tentativo di germanizzare la Venezia Giulia (che sotto l’Austria si chiamava “Litorale”) non ebbero successo.
Nella seconda metà dell’Ottocento si faceva sempre più strada in Europa l’idea dello stato nazionale; questo rappresentava una serio pericolo per il multietnico Impero Austro-ungarico. In Venezia Giulia si svegliarono sia le coscienze italiane che quelle slave, ma mentre gli italiani volevano unirsi al neonato Regno d’Italia, tra gli slavi si fece strada l’idea del “trialismo”, ossia della suddivisione dell’Impero in tre regni: Austriaco, Ungherese e Slavo, con una Slavia che si estendesse fino al Tagliamento.
Tra le due nazionalità venne a cessare quella pacifica convivenza plurisecolare e si accesero forti ostilità di carattere etnico: da un lato l’italiano cittadino, artigiano o mercante, laico e irredentista, dall’altro lo slavo contadino, cattolico e filo-austriaco. Tale odio etnico divenne – almeno da parte degli slavi, “aizzati” dal governo austriaco che temeva la nascente potenza italiana – sempre più profondo e generale. Le battaglie sull’Isonzo durante la Prima Guerra Mondiale misero in evidenza con quale ferocia gli slavi che occupavano le file dell’esercito austriaco ammazzavano e commettevano scempi sui cadaveri dei soldati italiani.
Col Trattato di Rapallo la Venezia Giulia entrò a far parte dell’Italia, coronando così il sogno degli italiani della regione. Nel 1924 anche Fiume – dopo lunghe trattative note come la “Questione di Fiume”, la lodevole impresa del D’Annunzio e non senza spargimento di sangue – venne annessa all’Italia.
Molti hanno dibattuto sull’“erroneità” di quel confine che a detta loro dava all’Italia zone palesemente slave. Va precisato a tal proposito che in realtà il confine del 1920 seguiva in massima parte la linea di spartiacque (anzi, in alcuni punti era sfavorevole all’Italia), a differenza di quella linea pretesa a Versailles dal presidente americano Wilson disegnata “in base a principi etnici” (questo stesso metro egli però non lo adottò né per la sua America, né per Francia e Inghilterra né per lo stesso confine altoatesino) e per fortuna mai approvata. Inoltre – e questo fatto non viene mai riportato – sebbene in netta minoranza, gli italiani erano presenti un po’ dovunque in Venezia Giulia, non solo in Istria, ma anche a Tolmino, Caporetto, Plezzo (più che nei paesi dei circondari di Gorizia e Trieste), nonché nelle remote Idria, Postumia Grotte e San Pietro del Carso. Non vi erano italiani a Villa del Nevoso (provincia di Fiume) e a Circonio (Jugoslavia), ve ne erano invece a Castua, Zaule della Liburnia (si veda lo studio dannunziano a tal proposito), e nella fascia costiera che va da Susak a Novi, zone queste escluse dal Regno (sebbene si tratta di piccole percentuali) Si vedano a tal proposito le cartine 3 (il confine orientale d'italia 1924-1947) e 4 (la distribuzione delle etnie in Venezia Giulia).
Durante il Ventennio Fascista furono costruite molte opere pubbliche in Venezia Giulia: le strade statali, la bonifica dell’Arsa, il potenziamento dell’industria, l’apertura di scuole ecc. Tanto è stato detto sull’atteggiamento vessatorio del Governo italiano nei confronti degli slavi. Se è vero che furono chiuse pubblicazioni e scuole slave, si cercò di ridurre al minimo l’uso delle lingue slovena e croata, tanto da provocare una certa diffusione dell’irredentismo slavo – coadiuvato dai comunisti italiani – è pur vero che non fu affatto attuata una politica sistematica di terrore o di pulizia etnica (come invece farà Tito), piuttosto si cercava (anche se bruscamente) di far assimilare agli slavi colà residenti la lingua e la cultura italiana. Inoltre il cianciato esodo “di massa” degli slavi (taluni scrivono senza conoscere le fonti di 150 mila persone!) riguardava – basti confrontare i dati del censimento del 1921 e di quello segreto del 1936 – poche migliaia di unità, così come vi era un esodo italiano e sia gli uni che gli altri abbandonarono la propria terra per cercare fortuna altrove. Inoltre la politica del Regime in quegli anni era la stessa effettuata da Belgrado nei confronti degli Italiani in Dalmazia. Infine le opere pubbliche di quel periodo (di cui molte a tutt’oggi usate da Slovenia e Croazia) favorirono un miglioramento delle condizioni sociali degli slavi stessi. L’irredentismo stesso non coinvolse tutta la popolazione slava, ma solo pochi gruppi culturali. Si arrivò così alla seconda guerra mondiale e agli anni più bui della Venezia Giulia.
Cenni storici della Venezia Giulia: dalla Seconda guerra mondiale a oggi
Nel 1940 Mussolini entrò in guerra sperando in una veloce vittoria dell’Asse e a una spartizione tra Italia e Germania del bottino di guerra. In quest’ottina nel 1941, in seguito alla dissoluzione della Jugoslavia, l’Italia annettè la Slovenia occidentale (creando l’autonoma provincia di Lubiana detta anche “Slovenia italiana”) e la Dalmazia (con le province di Zara, Spalato e Cattaro); fu ampliata anche la provincia di Fiume, con Veglia, Buccari e i distretti slavi di Cabar e Delnizza. Non furono invece annesse alcune isole dalmatiche che avevano un passato italiano (ad esempio la Brazza). Tali conquiste furono fatte un po’ con la stessa logica con cui Inghilterra e Francia hanno occupato le loro colonie e in quest’ottica devono essere viste; tale situazione durò fino all’8 settembre 1943 quando l’esercito italiano si ritrovò spiazzato e senza ordini. In questo periodo i partigiani slavi governati dal maresciallo Tito e coadiuvati dai comunisti italiani irruppero in Venezia Giulia Se gli italiani avevano usato violenze contro gli slavi nella prima fase della Seconda Guerra Mondiale, queste erano dovute ad una normale condotta di guerra. Ma i titini, col pretesto di liberare la Venezia Giulia dal fascismo, attuarono il loro piano di slavizzazione della Venezia Giulia, piano da attuare (a differenza dell’italianizzazione del Ventennio) con ogni mezzo barbaro e sadico e per mezzo di una pulizia etnica. Nell’ottobre del 1943 i tedeschi occuparono la Venezia Giulia e cacciarono via le truppe titine; tale occupazione durerà fino al 1945, ma non fu un’annessione: la moneta che circolava era italiana, gli atti e i tribunali erano in lingua italiana, si parlava tranquillamente in italiano, non vi fu un capillare tentativo di germanizzazione da parte dei tedeschi. Fu allora che si scoprì la tremenda verità di quanto accaduto in un mese di occupazione slava. Molti italiani erano stati barbaramente trucidati e massacrati dalla furia slava solamente per il fatto di essere tali. Nacque la dolorosa tragedia delle foibe.
Il Carso, cioè quella parte della Venezia Giulia interna che va da Gorizia a Fiume, è caratterizzato da una particolare conformazione geologica del territorio (detta appunto "carsica"), fatta di grotte, anfratti, voragini e percorsi d'acqua sotterranei. Tali voragini, che sprofondano per centinaia di metri nelle viscere della terra spesso percorse dalle acque, sono chiamate "foibe". In tutto il Carso ne sono state contate circa 1700. Queste cavità sono famose non solo per l’interesse scientifico, ma anche e soprattutto per il fatto di essere diventate strumento di martirio e orrida tomba per migliaia di infelici. I cadaveri recuperati misero in agghiacciante evidenza la crudeltà e la ferocia degli infoibatori: corpi denudati e martoriati, mani legate col filo di ferro fino a straziare le carni, colpi alla nuca, orecchie staccate, testicoli in bocca, donne incinte sventrate, sevizie orrende di ogni genere. Si ricorda il caso emblematico della studentessa Norma Cossetto.
I tedeschi occuparono il Litorale fino alla fine dell’aprile del 1945 (noto è il campo di concentramento della Risiera di San Sabba in funzione in questo periodo), quando le truppe titine liberarono dai nazisti la Venezia Giulia E’ curioso notare come Tito si preoccupasse prima di occupare Trieste e in seguito Lubiana. Togliatti fece in modo che Tito potesse precedere gli anglo-americani alla liberazione di quelle zone. La guerra era finita, ma i seguaci di Tito con una violenza ancora più inaudita di quella usata nel 1943 perseguitò gli italiani (fascisti e antifascisti) e i suoi nemici politici. Trieste venne occupata per 40 giorni. Ecco quanto scrive sui tragici giorni dell'occupazione jugoslava Diego De Castro, che fu rappresentante italiano presso il Governo militare alleato a Trieste:
" (...) forse non è inutile ricordare agli altri italiani quali furono gli orrori dell'occupazione jugoslava di Trieste e dell'Istria: gli spari del maggio 1945 contro un corteo di italiani inermi con cinque morti e innumerevoli feriti, le razzie di miliardi di allora nelle banche. nelle società, negli enti pubblici. A tutti i nostri connazionali è ormai nota la lugubre parola foiba e tutti sanno che cosa sono i campi di concentramento."
A 9 chilometri da Trieste, sul ciglione carsico, sorge il paesino di Basovizza. Nei pressi si apriva il "Pozzo della miniera", oggi meglio conosciuto come "Foiba di Basovizza", divenuta simbolo di tutte le foibe del Carso e dell'Istria, e di tutti i luoghi che hanno visto il martirio e la morte atroce di italiani, sia per il numero delle vittime che ha inghiottito, sia tragicità delle vicende connesse a tali stragi.
Un documento allegato a un dossier sul comportamento delle truppe jugoslave nella Venezia Giulia durante l'invasione, dossier presentato dalla delegazione italiana alla conferenza di Parigi nel 1947, descrive la tremenda via-crucis delle vittime destinate ad essere precipitate nella voragine di Basovizza, dopo essere state prelevate nelle case di Trieste, durante alcuni giorni di un rigido coprifuoco:
"Lassù arrivavano gli autocarri della morte con il loro carico di disgraziati. Questi, con le mani straziate dal filo di ferro e spesso avvinti fra loro a catena, venivano sospinti a gruppi verso l'orlo dell'abisso. Una scarica di mitra ai primi faceva precipitare tutti nel baratro. Sul fondo chi non trovava morte istantanea dopo un volo di 200 metri, continuava ad agonizzare tra gli spasmi delle ferite e le lacerazioni riportate nella caduta tra gli spuntoni di roccia. Molte vittime erano prima spogliate e seviziate."
Venne in seguito affrontato il problema del confine, che tanto stava a cuore agli slavi di Tito. Nel 1947 furono proposte dalle diverse potenze vincitrici quattro linee di frontiera: fu bocciata come eccessiva, quella sovietica (sostenuta anche da Palmiro Togliatti) che passava per Pontebba, Cividale del Friuli e la foce dell'Isonzo e che includeva nella Jugoslavia quasi settecento mila italiani, e bocciate quelle statunitense e inglese che pure davano alla Jugoslavia tutta la parte orientale e meridionale della Venezia Giulia, ma che lasciavano però in mano italiana tutta la costa occidentale dell'Istria, da Muggia a Pola, piú Trieste, Gorizia e Monfalcone. Fu approvata invece la punitiva proposta della Francia, che nel "Trattato di pace" di Parigi del 10 febbraio 1947 cedeva alla Jugoslavia quasi tutta l'Istria (oltre Fiume e Zara), spezzava Gorizia a metà ed istituiva il Territorio Libero di Trieste (T.L.T.). In quello stesso giorno a Pola venne ucciso dall'istriana Maria Pasquinelli il generale inglese Robin De Winton, in quanto ritenuto uno dei responsabili della cessione. Catturata, ella portava con sé la seguente dichiarazione: "Seguendo l'esempio dei 600.000 Caduti nella guerra di redenzione 1915-18, sensibile come Sauro all'appello di Oberdan, cui si aggiungono le invocazioni strazianti di migliaia di Giuliani infoibati dagli jugoslavi, dal settembre 1943 a tutt'oggi, solo perchè rei d'italianità, a Pola irrorata dal sangue di Sauro, riconfermo l'indissolubilità del vincolo che lega la Madre Patria alle italianissime terre di Zara, di Fiume e della Venezia Giulia, eroici nostri baluardi contro il panslavismo minacciante tutta la civiltà occidentale ....."
La decisione di dividere l'Istria dall'Italia, ma anche lo stato di terrore che si era venuto a creare ad opera dei partigiani slavi, determinarono l'esodo di oltre 350 mila italiani. Alcuni emigrarono all'estero, ma molti preferirono essere esuli in Patria, andando ad abitare a Trieste e nel resto dell'Italia. Pochissimi rimasero nelle loro terre: la volontà di restare italiani contagiò la maggior parte degli istriani.
L’esodo fu una reazione naturale al violento tentativo di una cruenta snaturalizzazione voluta dagli slavi. Le città si svuotarono: da Fiume fuggirono 54 mila persone su 60 mila abitanti; da Pola 32 mila su 34 mila; da Zara 20 mila su 21 mila; da Capodistria 14 mila su 15 mila. Solo a Pola l’esodo si svolse sotto la protezione inglese con navi italiane. In tutti gli altri casi, i giuliani dovettero abbandonare le case sotto il controllo dei partigiani slavi. La fuga fu tentata con ogni mezzo possibile: vecchi piroscafi, macchine sgangherate, carri agricoli, barche, a nuoto o a piedi, e spesso finiva con una raffica di mitra, con lo scoppio di una mina o sul filo spinato. Gli esuli arrivavano alla meta stremati e feriti, mentre la stampa slava sghignazzava “I fascisti scappano come ladri di galline” e De Gasperi e Scelba parlavano di una dispersione degli esuli in quanto “pericolosi nazionalisti”.
Il sogno panslavista del maresciallo Tito si era - almeno in parte - realizzato. Un sogno che aveva determinato la più grande pulizia etnica a danno dell'Italia.
Anche la parte nord della Venezia Giulia passò in territorio slavo, compreso quella Caporetto dove erano morte - a posteriori si può dire inutilmente - 200 mila persone combattendo per l'italianità di quelle terre.
Il T.L.T. fu diviso in due zone: la "zona A" (da Duino a Muggia, con Trieste) restò per qualche tempo sotto l'amministrazione angloamericana e solo nel 1954 tornò all'Italia, mentre la "zona B" (da Capodistria a Cittanova) cadde in mano jugoslava. Il trattato di Osimo firmato il 10 novembre 1975 sancì che la "zona A" e la "zona B" divenissero parti integranti rispettivamente dell'Italia e della Jugoslavia. Il trattato provocò manifestazioni di protesta a Trieste e in altre parti d'Italia, ma in generale l’opinione pubblica italiana si mostrò alquanto disinteressata all’avvenimento. Fino agli anni novanta i comunisti italiani affermavano o che gli infoibamenti furono effettuati dai nazisti o machiavellicamente che esse erano “una giusta reazione alle ingiustizie fasciste perpetrate a danno degli slavi durante il ventennio”. Offensivo nei confronti degli giuliani il bacio dato da Pertini alla bandiera jugoslavia e gli onori ai funerali di Tito nel 1980. I libri di storia inoltre omettono completamente questa dolorosa pagina scritta col sangue di diecimila - ventimila italiani, al più dedicano un trafiletto alla “Questione di Trieste”. Gli italiani sono completamente ignoranti in materia, tanto da meravigliarsi se vanno in gita in Istria e vedono campanili di stile veneziano e gente che parla l’italiano.
I recenti censimenti in Istria e nel Quarnaro hanno comunque riservato non poche sorprese: gli italiani dichiarati sono circa 30 mila ma si conta che quelli di lingua italiana siano molti di più. L'ex regime di Tito negava diritti alle minoranze, Croazia e Slovenia, per questioni internazionali, non lo possono fare; il numero di italiani è in costante aumento e alle porte della penisola "bussano" gli esuli che chiedono la restituzione delle proprietà abbandonate da più di mezzo secolo.
Le etnie nei distretti della Venezia Giulia (1921)
Città Italiani Sloveni Croati Tedeschi
Gorizia (GO) 75% 22% - -
Gradisca (GO) 87% 11% - -
Monfalcone (TS) 96% 2,6% - -
Sesana (TS) 3% 92% - -
Tolmino (GO) 3,3% 96% - -
Idria (GO) 2,8% 97% - -
Postumia G. (TS) 2,6% 97% - -
Tarvisio (UD) 14% 17% - 64%
Trieste (TS) 84% 11% - -
Capodistria (PO) 51% 33% 15% -
Lussino (PO) 68% - 15% -
Parenzo (PO) 75% 5% 20% -
Pisino (PO) 39% 2,5% 57% -
Pola (PO) 71% - 20% -
Abbazia (FM) 19% 34% 43% -
Fiume (FM) 79% 3,4% 10% -
Le etnie nei distretti della Venezia Giulia (1936)
Città Italiani Sloveni Croati Tedeschi
Gorizia (GO) 80% 20% - -
Gradisca (GO) 88% 11% - -
Monfalcone (TS) 98% 2% - -
Sesana (TS) 7,3% 91% - -
Tolmino (GO) 6% 93% - -
Idria (GO) 7% 93% - -
Postumia G. (TS) 10% 89% - -
Tarvisio (UD) 22% 15% - n.p.
Trieste (TS) 80% 18% - -
Capodistria (PO) 49% 35% 15% -
Lussino (PO) 57% - 42% -
Parenzo (PO) 72% 4% 23% -
Pisino (PO) 26% 2% 70% -
Pola (PO) 66% - 32% -
Abbazia (FM) 16% 30% 46% -
Fiume (FM) 80% 3% 16% -
Il censimento ufficiale del 1921 mostra la maggioranza numerica degli italiani in Venezia Giulia, confermata dal censimento segreto del 1936 (sebbene fosse in leggero declino in alcune zone). In tale tabella mancano i dati relativi agli italiani dell’isola di Veglia e alle presenze italiane dei paesi limitrofi a Fiume non compresi nel Regno d’Italia dopo il 1924. Il dato di Fiume riportato nel censimento del 1921 risale al 1925.
Elenco dei comuni della Venezia Giulia passati alla Jugoslavia nel 1947
Comuni già appartenenti all'antica provincia di Fiume: Abbazia; Castel Jablanizza; Castelnuovo d'Istria; Clana; Elsane; Fiume; Fontana del Conte; Laurana; Matteria; Mattuglie; Primano; Val Santa Marina (già Moschiena); Villa del Nevoso.
Comuni già appartenenti all'antica provincia di Gorizia: Aidussina; Bergogna; Cal di Canale; Canale d'Isonzo; Caporetto; Castel Dobra; Cernizza Goriziana; Chiapovano; Circhina; Comeno; Gargaro; Gracova Serravalle; Idria; Merna Comeno; Montenero di Idria; Montespino; Opacchiasella; Plezzo; Ranziano; Rifembergo; Salona d'Isonzo; Sambasso; San Daniele del Carso; San Martino Quisca; Santa Croce di Aidussina; Santa Lucia d'Isonzo; San Vito di Vipacco; Sonzia; Tarnova della Selva; Temenizza; Tolmino; Vipacco; Zolla.
Comuni già appartenenti all'antica provincia di Pola: Albona; Antignana; Arsia; Barbana d'Istria; Bogliuno; Brioni Maggiore; Canfanaro; Cherso; Dignano d'Istria; Erpelle – Cosina; Fianona; Gimino; Lanischie; Lussingrande; Lussinpiccolo; Montona; Neresine; Orsera; Ossero; Parenzo; Pinguente; Pisino; Pola; Portole; Rovigno d'Istria; Rozzo; Sanvincenti; Valdarsa; Valle d'Istria; Visignano d’Istria; Visinada.
Comuni già appartenenti all'antica provincia di Trieste: Bucuie; Cave Auremiane; Corgnale; Cossana; Crenovizza; Divaccia San Canziano; Duttogliano; Postumia Grotte; San Giacomo in Colle; San Michele di Postumia; San Pietro del Carso; Senosecchia; Sesana; Tomadio; Villa Slavina.
Comuni già appartenenti alla provincia di Zara: Zara; Làgosta.
Comuni facenti parte della zona B dell'ex territorio libero di Trieste ceduti alla Jugoslavia in base al trattato di Osimo del 10.11.1975: Buie d'Istria; Capodistria; Cittanova d'Istria; Grisignana; Isola d'Istria; Maresego; Monte di Capodistria; Pirano; Umago; Verteneglio; Villa Decani.
La Dalmazia
La Dalmazia: introduzione
La Dalmazia è quel territorio della costa adriatica orientale che va dalla baia di Buccari fino alla foce del fiume Boiana ai confini con l'Albania (vedi cartine 1 e 2). La Dalmazia non appartiene geograficamente alla Regione italiana, ma costituisce un territorio a sé, geograficamente staccato dalla Jugoslavia interna per mezzo delle Alpi Dinariche e totalmente differente da essa sia per ragioni climatiche che etniche, in quanto gli slavi dalmati hanno usi e costumi molto differenti da quelli dell'interno. La Dalmazia fino agli anni venti era costituita per quasi un terzo da italiani, che amministravano circa metà dei comuni del territorio. Gli italiani erano concentrati soprattutto sulle isole (Arbe, Lissa, Cùrzola, Lèsina, Brazza, Mèleda ed altre) e nelle città costiere in primis Zara (90 % di italiani negli anni Trenta) e Sebenìco, ma anche Spalato, Traù, Ragusa di Dalmazia, Càttaro ed altre minori. Inoltre, italiana era la cultura dominante di tutta la Dalmazia, in quanto residuo della plurisecolare dominazione della Repubblica di Venezia. I moti irredentisti in Dalmazia furono molto vivi nella seconda metà dell'Ottocento, ma furono spesso soffocati dall'Impero austro-ungarico che temeva la nascente potenza italiana. Il Patto di Londra del 1915 prometteva all'Italia il dominio su tutta la Dalmazia entro i confini allora ritenuti naturali (vedi cartina 3), ma tale promessa fu negata al trattato di Versailles per la ferrea opposizione del presidente americano Wilson. Furono annesse all'Italia solo Zara, Làgosta e l'arcipelago di Pelagosa.Tale "vittoria mutilata" ebbe come conseguenza l'esodo della quasi totalità degli italiani dalmati.
La città di Zara fu l'ultima roccaforte dell'italianità della Dalmazia e resistette fino al 1944 quando in seguito a quasi 60 massicci bombardamenti americani i partigiani di Tito entrarono nella città mettendola a ferro e fuoco e uccidendo centinaia di italiani. Ora la Dalmazia è composta nella totalità della popolazione da slavi (croati ed in piccola parte montenegrini e bosniaci). Qualche italiano si trova a Zara e a Spalato. Un dialetto di tipo veneto si riscontra in ogni caso sia a Zara che in alcune isole (Cùrzola, Lèsina).
La Corsica
La Corsica (vedi cartine 1 e 2 ) ha anch'essa cultura, usi e storia italiani. In epoca medievale fu contesa da Pisa e Genova che, dopo la battaglia della Meloria (1284), ne rimase padrona. L'occupazione genovese è mal ricordata dai corsi, contrariamente a quella di Pisa che ne plasmò il dialetto. Il 1768 è l'anno della perdita della Corsica: la Repubblica di Genova vendette l'isola alla Francia, che da anni ambiva al possesso dell'isola per un maggior controllo del Mediterraneo. Le truppe francesi (giunte a Bastia già dal 1764) sbarcarono nella restante Corsica nel 1769 e piegarono facilmente le resistenza dei corsi guidati da Pasquale Paoli. Insieme alla Corsica divenne francese la toscana isola di Capraia, che però sarà ceduta alla Toscana con la pace di Vienna del 1815. Nell'Ottocento cominciò lentamente il processo di francesizzazione della Corsica, che divenne sempre più inesorabile, tanto che agli inizi del Novecento l'italiano era quasi scomparso. Solo nelle chiese l'uso dell'italiano tardò a sparire: addirittura nel 1969 nelle montagne di Aiaccio un prete predicava ancora in italiano. Una ripresa dell'italianità della Corsica si manifestò tra le due guerre mondiali ad opera di alcuni intellettuali quali Bertino Poli, Petru Giovacchini, ecc.. Nel 1942 la Corsica fu occupata - ma non annessa - dall'Italia, ma dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 tornò nelle mani della Francia. A tutt'oggi nell'isola permangono caratteri italiani: il dialetto della sua parte meridionale è affine al gallurese mentre il corso del nord è una parlata di tipo toscano. Tracce di genovese si riscontrano a Bonifacio, un tempo luogo di prigione di galeotti genovesi. Una curiosità (che forse non tutti sanno): Napoleone nacque ad Aiaccio solamente un anno dopo la cessione della Corsica alla Francia.
I dialetti corsi e sardi
In Corsica oggigiorno è vivo un movimento che aspira all'indipendenza dell'isola dalla Francia e alla formazione di uno stato a sé. Tale movimento fa leva sulla posizione geografica dell'isola, totalmente estranea alla Francia, sulla cultura, sulle tradizioni e sulla parlata; in particolare viene contrapposto il corso al francese. In realtà il corso è una di quelle parlate locali che solo recentemente - e proprio per la profonda differenza rispetto al francese - sono state erette al rango di "lingua". Se la Corsica fosse stata italiana (come la Geografia sostiene) molto probabilmente non si sarebbe avuto nessun pretesto per avanzare richieste di autonomia linguistica. Quando la superba Repubblica di Genova - per motivi economici e per l'incapacità di governarla - decise nel 1768 di vendere la Corsica, la offrì in primo luogo al granduca di Toscana che non si dimostrò interessato; accettarono invece i francesi che all'inizio non la consideravano neppure parte integrante della Francia ma un possedimento d'oltremare. Il legame tra la Corsica e la Francia fu creato sostanzialmente da Napoleone. D'altra parte le rivolte antigenovesi scoppiate nel Settecento non avevano assolutamente carattere etnico, ma erano semplicemente una dura risposta alla continua imposizione di tributi da parte di Genova che allora viveva una profonda crisi economica. Riguardo alla parlata corsa, essa non è affatto univoca (pertanto non è esatto parlare di "lingua" corsa). I dialetti corsi si dividono in due grandi famiglie: quelli della cosiddetta Banda di dentro (cioè la costa che guarda l'Italia, detta dai Corsi "di qua dai monti"), e quelli della Banda di fuori (costa che guarda il mare aperto, detta dai Corsi "di la dai monti"); i primi fanno capo al dialetto cismontano di Bastia (simile al toscano dell'Elba e di Livorno), i secondi all'oltremontano di Aiaccio (simile al sardo-gallurese detto appunto sardo-corso). Il modello linguistico adottato dagli autonomisti corsi è quello di Aiaccio, più diverso dal modello letterario italiano rispetto al dialetto di Bastia, che invece, dopo il toscano, è in assoluto il più vicino al modello letterario italiano. L'italiano rimase lingua di cultura in Corsica fino all'incirca al 1870 quando venne sostituito "in toto" dal francese (ad eccezione dell'occupazione italiana durante la seconda guerra mondiale); attualmente in Corsica solo qualche opuscolo clandestino ed indipendentista è stampato in lingua italiana.
Viceversa, se la Sardegna avesse continuato la propria esperienza autonomista dai tempi della "giudichessa" d'Arborea quando venne creata la modernissima "Carta de Logu", forse oggi essa avrebbe maturato una struttura linguistica, culturale ed economica autonoma o magari indipendente. Pur ritenenuto da moltissimi linguisti una lingua autonoma, il sardo non ha mai avuto una codificazione letteraria completa, tant'è che vi è una grossa differenza tra dialetto campidanese e dialetto nuorese; inoltre il dialetto gallurese (sardo-corso) è considerato italiano a pieno titolo e non sardo, in quanto subisce l'influenza del "ponte corso", l'unico tramite con la penisola italiana.
L'irredentismo corso durante la Seconda guerra mondiale
L'ultimo grande momento in cui in Corsica furono vivi movimenti irredentisti per un'annessione da parte italiana fu a ridosso della seconda guerra mondiale. In quel periodo molti Corsi, vedendo più probabile una neoannessione da parte italiana, ricominciarono apertamente a guardare all'Italia e si svegliò una certa coscienza rimasta sino ad allora sopita. A Livorno il professor Francesco Guerri fondò la rivista "Corsica antica e moderna", che seguiva l'"Archivio storico di Corsica" di Gioacchino Volpe. All'Università di Pisa i numerosi studenti corsi (tra cui spiccavano Giovacchini, Angeli e Poli) fondarono i "gruppi di cultura corsa". Tutto ciò ebbe fine nell'ottobre del 1946, quando il Tribunale per la difesa dello Stato francese, riunito a Bastia, condannò a morte i patrioti corsi Poli, Angeli, Giovacchini, Marchetti, Luccarotti e Grimaldi; si salvò solo il Grimaldi che era esule ed apolide in Italia e per il quale la Francia non chiese l'estradizione. Nel frattempo un analogo tribunale decreterà ad Algeri l'impiccagione dei colonnelli Cristofini e Pantalacci per collaborazionismo con il nemico (cioè gli italiani); in realtà essi erano tra i più ferventi fautori dell'annessione all'Italia della loro isola; per lo stesso reato il colonnello Mondielli e la giornalista Renucci scontarono lunghe pene, così come monsignor Domenico Parlotti, il dottor Croce, conservatore degli "Archivi di Stato della Corsica", e Petru Rocca segretario del Partito autonomista corso.
La Corsica oggi
I Corsi residenti in Corsica oggigiorno sono solo 260.000 circa, quelli costretti negli anni ad emigrare per il mondo sono invece oltre un milione. Molti di essi sono andati in Francia dove è stato offerto loro lavoro soprattutto nella pubblica amministrazione, francesizzandosi così velocemente. La politica di francesizzazione delle popolazioni alloglotte è stata particolarmente vessatoria nei confronti della Corsica. Essa addirittura fino al 1972 era aggregata alla regione Provenza-Costa Azzurra-Alpi-Corsica. L’abilità della Francia nel costruire regioni e dipartimenti che mettessero in secondo piano gli elementi ad essa estranei ed alloglotti, non era nuova: già nel 1860 il territorio della vecchia Contea di Nizza venne aggregato alla zona provenzale di Grasse e Cannes creando così un inedito dipartimento. Si ricordi inoltre che in Francia l'unica lingua ufficiale ed insegnata nelle scuole è il francese, come scrive Marzio Scaglioni “con buona pace dei principii di libertà ed espressione codificati fin dal lontano 1789”. Inoltre per legge in Corsica non si possono avere nomi propri italiani, ma solo francesi. All’atteggiamento nazionalista della Francia si accompagna l’indifferenza degli italiani i quali conoscono la Corsica più che altro come meta turistica d’élite.